Tortura con elettricità e clisteri

In caso di mancata osservanza alla presente direttiva la convocata sarà comunque giudicata in contumacia; si ricorda che l’eventuale condanna comminata in contumacia comporta l’automatico raddoppio del massimo delle pene previste per ciascun capo d’imputazione cui sarà riconosciuta colpevole.”

Dovetti rileggere la lettera più volte prima di comprendere appieno in che guaio mi ero cacciata.

Nelle pruriginose chiacchiere di corridoio, si sussurrava di donne ed uomini che avevano ricevuto lettere simili, qualcun’addirittura la conoscevo, ma non si era mai riusciti a sapere, da nessuna di loro, qualcosa di preciso su quel tribunale e sulle pene che comminava: tutte mute come pesci.

Mi maledì per aver accettato quel lavoro e soprattutto le regole assurde che ne governavano la vita anche oltre l’orario di servizio.

Certo, era pagata in modo principesco e alla scadenza del contratto decennale, avrei ricevuto una pensione che mi avrebbe concesso di fare una vita da ricca ereditiera; ma quei dieci anni si stavano rivelando estremamente duri da far passare. La mania di segretezza dei proprietari della Compagnia, imponeva a tutti, dirigenti, impiegati e tecnici, di vivere su quella sperduta isola in mezzo all’oceano; e questo si sarebbe anche potuto capire e sopportare, ma le regole estremamente puritane che governavano la vita di tutti i giorni erano veramente assurde: tutto era programmato, prestabilito, previsto. Divertimenti, feste, sport, passatempi, tutto nei modi e tempi stabiliti dalla proprietà della Compagnia; ma la cosa peggiore era che su tutto imperava una regola ferrea ed irremovibile: il divieto assoluto di contatti intimi con altri impiegati, del proprio o dell’altro sesso, al di fuori del matrimonio.

Io, che, modestamente, a detta di tutti, sono un gran bel pezzo di donna; che nella vita mi ero sempre tolta tutti gli sfizi e le soddisfazioni che un sano corpo pretende, a prezzo di enormi sforzi e sacrifici, ero riuscita a condurre un’irreprensibile vita monastica fino a quel giorno in cui, rimasta a casa per una lieve indisposizione, il mio segretario venne a farmi firmare alcuni documenti urgentissimi. In un pomeriggio pareggiai i conti con quattro anni, tre mesi e dieci giorni di completa astinenza sessuale.

Venerdì 12, alle ore 17,40, ero seduta, da sola, in una piccola stanza inondata di luce artificiale. La parete che avevo di fronte era formata, quasi interamente, da un gigantesco specchio che, presunsi, fosse del tipo che permetteva, a chi era dall’altra parte, di vedere senza essere visto.

Un infermiere mi aveva applicato degli elettrodi autoadesivi sulle tempie, sui polsi, sul collo, collegandomi ad una specie di avanzatissima macchina della verità.

Una voce, proveniente da un altoparlante, mi stava facendo un discorso che, sull’inizio, stentai a capire, tanto ero impaurita e frastornata da tutta quella messa in scena. Riuscì a comprenderne soltanto il senso generale: non so come, ma avevano saputo del mio pomeriggio di follie sessuali. Ero lì per essere giudicata per ogni cosa che era stata fatta. A quel punto mi sforzai per concentrarmi e capire esattamente quello che la voce meccanica stava dicendo.

– … dovrà rispondere con la massima sincerità a tutte le domande che le saranno rivolte, anche se le sembreranno estremamente personali ed imbarazzanti; non è colpa nostra se ha voluto violare le regole che aveva volontariamente accettato. Se tenterà di ingannarci con risposte non veritiere, la macchina lo rileverà immediatamente, e questo non ci indurrà, certamente, ad essere benevoli e comprensivi nel giudizio. Le ricordiamo che lei è libera di sottrarsi a questo procedimento presentando seduta stante le sue dimissioni, nel qual caso, come previsto dall’art. 35 commi 6 e 7 del contratto, lei perderà ogni diritto pensionistico ed in più dovrà pagare una penale pari ai due terzi degli stipendi e gratifiche fin qui percepite. Le è tutto chiaro? –

Sperai che tutto quello che mi stava accadendo non fosse altro che un terribile incubo, e che da lì a poco sarebbe squillata la sveglia per dirmi che era ora di alzarsi.

– Cominciamo con qualche domanda molto semplice, per metterla a suo agio: è vero che il pomeriggio di lunedì 8 ultimo scorso, lei ha infranto la regola del divieto di fare sesso se non sposati andando a letto con il suo segretario? –

Mi sentì avvampare dalla vergogna: messo in quei termini tutto diventava volgare e squallido.

– La preghiamo di rispondere immediatamente senza tentennamenti; grazie. –

Alla mia risposta positiva seguirono altre domande sempre più intime e veramente imbarazzanti: chi aveva cominciato?; quale indumento mi ero tolto per primo?; glielo avevo preso in mano?; e in bocca?; se mi ero fatta leccare; se avevo provato piacere; se me lo aveva messo dietro; lo avevo chiesto io di mettermelo dietro o aveva insistito lui? avevo provato dolore?. Questo interrogatorio andò avanti per almeno un’ora. Cercai di rispondere a tutto nel modo più sincero e, per me, meno imbarazzante possibile.

– Con le domande abbiamo concluso. A parte qualche indecisione, ci risulta che lei abbia risposto in modo sufficientemente veritiero: questo depone a suo favore e ne terremo conto. Tra poco le comunicheremo le nostre decisioni. –

L’attesa durò più a lungo di quanto mi aspettassi. Non sapevo cosa pensare, non riuscivo ad immaginare quale pena mi sarebbe stata comminata. Secondo qualche voce incontrollabile che era girata negli uffici, si parlava addirittura di punizioni corporali; ma in fondo, nessuno ci credeva veramente: mica eravamo nel Medio Evo.

– Signora Clara, – la voce dell’altoparlante mi colse di sorpresa facendomi sobbalzare – questa Commissione ha esaminato a fondo il suo caso giungendo ad una decisione unanime. La preghiamo di alzarsi per ascoltare il verdetto. –

Con un groppo in gola che m’impediva di respirare normalmente, mi alzai per ascoltare cosa avessero deciso.

– Signora Clara, questa commissione, visti i documenti agli atti ed ascoltata la sua confessione spontanea, la dichiara colpevole di aver compiuto atti osceni con un impiegato a lei direttamente subalterno con l’aggravante di ripetuta fellazio e sodomia consenziente. In considerazione della sincerità e del modo esauriente con cui ha risposto alle domande, noi la condanniamo a quaranta ore complessive di terapia elettrica. Esecutore della condanna sarà il Primo Dirigente Medico della Compagnia. Le sarà notificato, per tempo, dove e quando dovrà iniziare a scontare la sua punizione. Così abbiamo deciso. –

Un forte colpo, che presunsi fosse quello di un martelletto battuto sul tavolo, fu l’ultima cosa che sentì da parte dei membri della Commissione. Crollai di schianto sulla sedia: Terapia Elettrica? E che diavolo era?

Non avevo la più pallida idea di cosa fosse; e ne dovevo fare quaranta ore.

Nei giorni seguenti cercai, con molta circospezione, di sapere qualcosa su questa maledetta Terapia Elettrica. Dopo lungo cercare, qualcuno mi suggerì di chiedere alla ragazza responsabile della spedizione potale: “lei, forse, ne sa qualcosa”.

Andai subito a cercarla.

– Mi chiamo Clara M., vorrei farle qualche domanda. –

– Prego, – rispose molto gentilmente – mi dica … –

– Ecco, la cosa è un poco imbarazzante … la Compagnia mi ha imposto di fare quaranta ore di terapia elettrica, e, non so se lei può aiutarmi, ma vorrei saperne qualcosa di più, visto che non ne so praticamente niente. –

L’atteggiamento della ragazza cambiò di colpo; abbassò gli occhi e la sua fronte s’imperlò di sudore..

– Spiacente, ma di questo non ne posso assolutamente parlare. – Era letteralmente terrorizzata.

– Ma io voglio soltanto saperne qualcosa –

– Signora, le ripeto che non ho il permesso di discutere sull’argomento né con lei né con chiunque altro. Ed ora, se mi vuole scusare, ho molto da fare. –

E con questo si chiusero anche le mie ricerche.

Quella stessa mattina, avevo ricevuto la lettera di convocazione per il giorno 19, anche quello era un venerdì, sempre alle ore 17,30. Appena terminato l’orario di lavoro, quindi, dovevo presentarmi presso lo studio del Dirigente Medico, al quinto piano della palazzina dirigenziale.

Venerdì 19, il tempo sembrò accorciarsi; le 17,00 arrivarono fin troppo presto. Con più ansia che paura, mi avviai verso la palazzina dirigenziale. Presi l’ascensore e spinsi, con un certo batticuore, il pulsante del quinto ed ultimo piano: era la prima volta, in tanti anni, che salivo a quel piano.

Quando le porte dell’ascensore si aprirono mi trovai di fronte ad una scrivania occupata da un’infermiera molto grossa. Non grassa e flaccida; ma un donnone grande e grosso che sembrava un’orsa in uniforme.

– Sono la signora … –

– So che è lei. – mi interruppe bruscamente l’orchessa da dietro la scrivania – E’ l’unico appuntamento che abbiamo per oggi. –

Mi sentì morire: quella donna stava leggendo un incartamento che poteva essere la mia confessione; tutto quello che avevo fatto e mi ero fatta fare dal mio segretario. Sperai con tutte le mie forze che così. Ogni tanto alzava gli occhi dai fogli e mi guardava con un ghigno sulle labbra.

– Per favore, mi segua. – mi ordinò, alzandosi, appena ebbe richiuso l’incartamento.

Aprì una porta e mi fece entrare in una piccola stanza. Su un gancio alla parete era appeso un camice verde da ospedale.

– Si spogli completamente ed indossi quel camice. L’apertura è alle spalle. – aggiunse indicandomi con un gesto che dovevo indossarlo dal davanti.

Per mia fortuna uscì chiudendosi la porta alle spalle: sarei morta dall’imbarazzo se avessi dovuto fare tutto in sua presenza. Mi spogliai completamente e riposi i miei indumenti nella borsa che trovai attaccata ad un altro gancio. Il camice che dovetti indossare era del tipo ospedaliero, con l’apertura alle spalle ed un unico laccio sul collo; oltre tutto era estremamente corto, mi copriva appena l’attaccatura delle cosce.

Uscì dallo stanzino cercando di stringere, sul didietro, i lembi del camice: non mi andava affatto di girare con le natiche al vento.

Se solo avessi immaginato quello che stava per capitarmi… .

L’orchessa, nuovamente seduta alla sua scrivania, mi fissò con uno sguardo che non lasciava presagire niente di buono.

– Infermiera – le chiesi con una notevole trepidazione – mi può dire cosa sta per accadermi? –

– Posso dirle soltanto che devo prepararla per la sua punizione. Di più proprio non posso. Ma non stia lì a preoccuparsi; saprà anche troppo presto quello che l’aspetta. Ed ora mi segua nello studio del medico. Prego. –

Si alzò e s’indirizzò verso un’altra porta.

La stanza in cui mi fece entrare era molto grande; c’era un lettino da visita, una poltrona ginecologica con tanto di staffe poggia piedi, armadi a vetri ripieni di strumenti vari. Insomma, tutto quello che normalmente si trova in uno studio medico ben attrezzato.

Con un blocco in mano su cui segnava tutti i risultati, l’infermiera mi pesò, prese la mia altezza e tutte le altre misure del corpo facendomi contemporaneamente molte altre domande riguardanti il mio ciclo mestruale e cose del genere. Appena finito, mi diede una tazza e mi ordinò di andare dietro il paravento: le occorreva un campione della mia urina.

Stentai a farmene uscire le poche gocce necessarie: incominciavo ad essere veramente preoccupata.

Appena uscita dal paravento, m’indicò il lettino da visita: compresi che mi ci dovevo stendere sopra.

Mi misurò la pressione del sangue e prese nota delle mie pulsazioni, dopo di che, rovistando in uno degli armadi, mi ordinò di voltarmi pancia sotto.

La guardai allibita quando la vidi tornare verso di me con un lungo termometro ed un barattolo di vaselina.

– Non vorrà mica … –

– Certo, cara. Devo prenderti la temperatura, e questo è il metodo più esatto. –

Dio, questa è la cosa più imbarazzante che potesse capitarmi.

– Ma è proprio necessario? – piagnucolai.

– Assolutamente – mi rispose mentre con l’indice ed il pollice della mano sinistra mi allargava le natiche mettendo a nudo il mio prezioso buchetto.

Infilò l’indice della destra nel barattolo e lo tolse carico di un grumo di vaselina.

– Ora faccia un bel respiro profondo. –

Non feci in tempo ad aprire la bocca che mi ritrovai il suo dito piantato tra le natiche. E ci prese anche gusto, quella perfida sadica; aveva un dito grosso come una trave e me lo spingeva e rigirava dentro come se stesse lavando il collo di una bottiglia. Anche se non volevo dargliela vinta, non potei fare a meno di lamentarmi.

– Oh, e che sarà mai … so che ci si è fatta infilare ben altro qui dentro. In fondo è soltanto il mio dito. –

La maledetta sapeva. Sapeva che mi ero fatta inculare dal mio segretario: era proprio la mia confessione che stava leggendo mentre aspettava che io arrivassi. Sentì il mio viso diventare di fuoco mentre mi infilava il termometro fino in fondo.

Mi tenne le natiche ben strette per almeno cinque minuti, poi tolse il termometro, lo pulì e lesse la temperatura. La garza con cui aveva pulito lo strumento era macchiata di marrone: diventai ancora più rossa per l’imbarazzo.

– Così non và proprio – disse indicando la garza sporca – dobbiamo fare in modo che lei sia perfettamente pulita: non si muova. –

Andò verso un altro armadio pieno di medicinali e tornò con una piccola scatola in mano. Ne trasse tre supposte e, allargandomi di nuovo le natiche, me le infilò fino in fondo, una dietro l’altra, spingendo e torcendo il dito come aveva fatto prima. Non contenta delle umiliazioni che mi stava infliggendo, mi assestò uno sculaccione per nulla amichevole e mi ammonì di tenerle fino a che non ne potessi più prima di andare a svuotarmi, se non volevo che il seguito fosse ancora peggiore.

Le supposte iniziarono ben presto il loro perfido lavoro: il mio pancino era sconvolto da movimenti interni che mi facevano sudare per lo sforzo di non farmela addosso; ma non volevo chiedere troppo presto, al cerbero, il permesso di andare in bagno; credevo sul serio alla sua minaccia.

Mentre io mi torcevo sul lettino, la sentii armeggiare negli armadi: sicuramente stava preparandomi qualche altra brutta sorpresa.

– Credo che le piccole amiche abbiano fatto il loro dovere: può anche andare in bagno, ma faccia in fretta. Non abbiamo ancora tanto tempo da perdere. –

Non me lo feci ripetere due volte. Schizzai dal lettino con la velocità di una centometrista e mi precipitai sulla tazza del cesso sperando di fare in tempo per non lasciare, dietro di me, una scia marrone.

Feci prima che potei, ma lei sicuramente lei giudicò che ci avessi messo troppo tempo. Mi lavai ed asciugai in fretta e tornai nella sala del medico.

Lei era in piedi, vicina al lettino, con un’espressione che non lasciava presagire nulla di buono. Accanto a sé aveva preparato un’asta porta flebo con appesa una sacca di plastica ricolma di liquido lattiginoso, dalla quale pendeva in tubo terminante con un piccolo rubinetto.

Come un automa mi avvicinai al lettino: oltre le supposte, anche un clistere; e sì che era una cosa che odiavo con tutta me stessa.

Seguendo le ingiunzioni dell’orchessa mi stesi sul fianco sinistro piegando il ginocchio destro verso il petto. Mentre mi tormentava di nuovo il buchetto con il suo dito, con la scusa di lubrificarmelo, pensai, tra me e me, che doveva essere sicuramente questa la punizione decretata nella condanna: cosa poteva capitarmi di peggio?

Con un lamento accolsi nel mio retto la grossa cannula del clistere.

– Respiri a fondo e si massaggi la pancia nel caso dovessero venirle i crampi: deve essere perfettamente pulita; quindi, questa sacca dovrà sorbirsela tutta. –

Mentre sentivo l’acqua molto calda riempire tutte le mie viscere, mi chiesi per quale motivo dovevo essere “perfettamente pulita”; poi mi ricordai della “terapia elettrica” ed allora cominciai ad avere il sospetto che il clistere poteva essere soltanto una preparazione e non la punizione.

Intanto l’infermiera aveva posto un grosso secchio a fianco del lettino.

– Dopo che le avrò tolto la cannula, aspetti qualche minuto poi si svuoti nel secchio: devo controllare che l’acqua sia pulita, senza tracce di feci. –

Mi sentivo la pancia gonfiarsi come una mongolfiera; intanto la mia aguzzina preparò un’altra sacca grossa quasi il doppio della precedente. Dal ghigno con il quale guardava le mie smorfie di dolore ad ogni crampo, mi resi conto che se anche avessi fatto acqua limpida come quella di sorgente, tutto il liquido di quella sacca sarebbe comunque finito nella mia pancia.

Se io dovevo essere perfettamente pulita dovetti convenire, mio malgrado, che il secondo clistere era necessario. Come mi fece perfidamente osservare l’infermiera, nell’acqua c’erano ancora tracce di cacca.

Non so come feci a ricevere tutta la seconda sacca: mi sentivo la pancia piena da scoppiare; e prima di darmi il permesso di svuotarmi, la perfida me lo fece anche trattenere per alcuni minuti.

Per mia fortuna, l’acqua mi uscì abbastanza chiara e non dovetti sorbirmi un terzo clistere.

– Ed ora svelta, sulla poltrona, con le gambe sulle staffe: la devo rasare completamente. –

– Mi deve rasare? – chiesi con angoscia – perché mi deve rasare? –

– Perché è scritto sulla sentenza; ecco perché. “la condannata dovrà essere completamente rasata nella zona pelvica e nella zona anale prima di subire la punizione”. Soddisfatta? –

Oh dio mio, ma cosa volevano farmi?

Avevo le lacrime agli occhi mentre mi legava le gambe spalancate alle staffe della poltrona ginecologica.

– Non preoccuparti che ti ricresceranno più forti e ricci di prima – commentò mentre mi passava il rasoio di sicurezza attorno all’ano, dopo avermi ben insaponata con un morbido pennello da barba – per ora devi presentarti liscia e pulita come una bambina. –

Proprio mentre stava completando la rasatura, la porta si aprì per lasciare entrare un uomo alto e brizzolato che indossava un camice da medico. Mi sentì morire dalla vergogna: neanche il mio ginecologo mi aveva mai vista conciata in quel modo.

– Buon giorno, sono il Medico Capo. Le farò uno screening completo e la preparerò per ricevere al meglio la sua punizione. È pronta, infermiera? –

– Ancora in istante. Finisco di asciugarla ed è tutta per lei. –

Calzando lo stetoscopio sulle orecchie, il medico mi si avvicinò senza dire una parola; attese che l’infermiera mi slacciasse il camice dietro la schiena e me lo togliesse, poi cominciò ad auscultarmi cuore e polmoni. Prese degli appunti poi mi tastò le mammelle; palpeggiandole a piene mani, mi strizzò i capezzoli facendomi un male cane. Il tutto senza dire una sola parola.

Prese altri appunti poi finalmente si rivolse a me chiedendomi se avessi mai avuto problemi di cuore o di circolazione. Annuì soddisfatto alla mia risposta negativa ed ordinò all’infermiera di accostare lo sgabello tra le mie gambe: doveva procedere all’esame ginecologico.

Ormai stavo perdendo ogni senso di dignità: il mio corpo veniva usato e trattato come un sopramobile in vendita: osservato, palpato e girato in ogni sua parte.

Il dottore si chinò tra le mie cosce spalancate dopo aver indossato un paio di guanti chirurgici. Odiavo sentirmi invadere da quelle dita impersonali avvolte nel lattice. Chiusi gli occhi appena vidi l’infermiera avvicinare un carrello d’acciaio ricolmo di strumenti.

Mi sentì dividere le grandi labbra ed un paio di dita entrare senza riguardo, spingendo a fondo, nella mia vagina. Con l’altra mano il medico premette su vari punti del mio addome.

– Sente dolore quando premo qui? E qui? Neanche qui? – continuò a chiedere ad ogni mio diniego con la testa.

– Bene; allora passiamo all’esame visivo. –

Dal gelo che avvertì tra le mie cosce, capì che mi aveva infilato dentro uno specolo d’acciaio; ed era anche di dimensioni notevoli: era molto più grande di quello che usava il mio ginecologo. Spalancai gli occhi per il dolore quando lo allargò, improvvisamente, al massimo: sembrava che mi stesse squarciando.

Vidi appena il fascio di luce della lampada tascabile che si indirizzava verso il mio pube.

– Uhm, – lo sentì borbottare – questa cervice è molto stretta. Dovremo allargarla. Infermiera, mi passi un divaricatore da 0,4, credo che sarà sufficiente. –

Mi sentì agghiacciare: ma cosa volevano farmi?

Come in risposta alla mia tacita domanda il medico si degnò di dirmi cosa stava per farmi.

– Vede signora Clara, il suo utero ha il foro sulla cervice molto stretto. Siccome dopo dovrò inserirle una piccola sonda, adesso glielo dilaterò un poco, così al momento opportuno, non ci saranno problemi. Sentirà in piccolo dolore, ma lei non incominci a preoccuparsi. Passerà in fretta. –

Non “dovevo” cominciare a preoccuparmi: ero “già” preoccupata, e da un pezzo.

Sentì come una stilettata nella mia pancia; mi lamentai ma il medico disse che era già tutto fatto. Porse il dilatatore all’infermiera e chiudendolo, sfilò lo specolo.

Pensai che la vagina non mi si sarebbe mai più richiusa: sentivo l’aria circolare dentro di me come in una stanza con la finestra aperta.

Per un attimo ebbi la sensazione che la visita fosse finita, ma mi sbagliavo; il medico stava soltanto immergendo di nuovo le dita guantate nel barattolo della vaselina. Immaginai dove le avrebbe infilate ed infatti, un attimo dopo, sentì due dita invadere nuovamente il mio già martoriato posteriore. Ormai non riuscivo più neanche a provare vergogna; mi sentivo come se il mio corpo non fosse più il mio. Ad un’altra donna stavano invadendo ed allargando, senza ritegno, tutti gli orifizi; non a me.

– Mi sembra che stia tutto a posto; non sento né ragadi né emorroidi. Penso che possiamo procedere. Il soggetto è in buona salute e può tranquillamente sopportare la punizione comminata. –

Oh, finalmente era finita questa maledetta visita. Assurdamente, non vedevo l’ora che cominciasse la punizione: sicuramente non potevano farmi niente di peggio.

– Mi scusi, ma non c’è pericolo che la donna se la faccia sotto all’inizio del trattamento? –

Maledetta infermiera: ma perché non si faceva gli affari suoi? Mi aveva svuotato con le supposte ed i clisteri; cos’altro potevo “farmi sotto” ancora?

– Sì, ha ragione; è già successo una volta. Mi prepari un catetere ureterale. –

Sentì il sangue che mi si faceva acqua. Questi erano pazzi. Avevo capito il senso della richiesta del medico e sapevo cosa stava per farmi: no! Questo non glielo avrei lasciato fare.

Come se mi avesse letto nel pensiero l’infermiera mi applicò un’altra cinghia sulle cosce. Adesso avevo le gambe assolutamente immobilizzate.

Il medico si chinò nuovamente tra le mie gambe allargandomi le grandi labbra, poi manovrando un poco, sentì che metteva a nudo il mio buco per la pipì. Con un tampone, strofinò e disinfettò la parte, facendomi provare un notevole bruciore che aumentò, in modo irresistibile, quando cominciò ad infilarmi dentro il catetere che gli aveva porto l’orchessa.

Lo sentì scorrere e bruciare dentro di me man mano che il medico spingeva. Ad un tratto mi ordinò di guardare in basso: dall’estremità libera del tubicino, sgorgava un liquido giallognolo. Ci misi un po’ a capire che era la mia urina che stava uscendo: mi stavano facendo pisciare sotto.

Erano riusciti anche a farmi provare nuovamente vergogna. Ancora di più sperai che la punizione cominciasse presto: non poteva assolutamente essere peggiore di quello che avevo dovuto sopportare durante tutta la visita.

Finalmente sembrò che tutto fosse veramente finito. L’infermiera usci dalla stanza mentre il medico mi aiutò a scendere dalla poltrona ginecologica lasciandomi in piedi, nuda come un verme.

Con un moto d’istintivo pudore, le mie mani scesero a coprire l’inguine. Trovai quasi comica la sensazione tattile del sentire la pelle del mio pube priva di peli.

Avevo appena indossato nuovamente il camice quando la strega tornò accompagnata da due colossi vestiti da infermieri.

Ecco; il momento della punizione era arrivato.

– Per cortesia, signora, apra la bocca; la spalanchi. – ordinò uno dei due tenendomi saldamente la testa da dietro le spalle.

Ero quasi tentata di rifiutarmi quando l’altro mi assestò un violento sculaccione convincendomi a non opporre resistenza. Appena ebbi spalancata la bocca me la riempì con una grossa palla di gomma che m’impediva di respirare liberamente.

* Respiri con il naso. La palla di gomma serve a salvaguardare i suoi denti. – mi spiegò mentre legava dietro la mia nuca i lacci che fuoriuscivano dalla palla.

Ora, con la bocca così piena, potevo soltanto mugolare.

Appena terminato, mi si accostarono, uno per lato e, tenendomi per le spalle, mi fecero uscire dallo studio del medico capo.

Il tragitto fu un tormento: il camice mi lasciava completamente scoperto il sedere e sentivo lo sguardo dei due uomini soffermarsi sulle mie belle natiche ondeggianti mentre camminavo.

La stanza nella quale mi accompagnarono era molto grande; conteneva una decina di comode poltrone disposte a semicerchio attorno ad un’enorme poltrona ginecologica molto più complessa ed attrezzata di quella della stanza del medico.

Quello che mi colpì, in particolare, di quella poltrona, fu il sedile; era fatto a forma di U, con una striscia vuota al centro.

I due infermieri mi fecero sedere sulla poltrona e mi posizionarono le gambe su particolari staffe, del tipo in grado di sorreggere tutto l’arto, dalle cosce ai piedi, poi, con delle cinghie, mi legarono alle staffe in modo che, le mie gambe, non potessero più compiere il minimo movimento.

Feci appena in tempo ad abituarmi a quella scomoda posizione che, con altre cinghie, mi legarono il busto allo schienale della poltrona, facendolo poi reclinare fino a farmi distendere quasi completamente; infissero dei lunghi pioli ai lati dello schienale e mi ci legarono a braccia distese, proprio come se mi avessero messa in croce. L’infermiera, che ci aveva raggiunti da poco, mi bloccava intanto la testa con una specie di cuffia infissa al bordo superiore della poltrona.

A quel punto ero veramente terrorizzata: il mio corpo non poteva fare il minimo movimento; ero in loro completa balia.

Con la coda dell’occhio vidi l’orchessa impugnare un paio di forbici ed avvicinarsi in modo minaccioso. Tentai di gridare, ma la palla che avevo in bocca m’impedì di emettere qualsiasi suono.

Fortunatamente le forbici non erano per me, per staccarmi qualche pezzo di corpo, come avevo paventato, ma semplicemente per tagliare il camice e denudarmi di nuovo, completamente.

I due infermieri, nel frattempo, avevano afferrato le staffe che mi imprigionavano le gambe, ed avevano cominciato a divaricarle fino al punto che ebbi l’impressione di essere squartata in due: avevo le cosce talmente allargate da sembrare una ballerina mentre fa la spaccata.

Soltanto allora mi accorsi che in alto, sul soffitto, c’era uno specchio che mi consentiva di vedere perfettamente tutto il mio corpo e, purtroppo, tutto quello che mi avrebbero fatto.

L’infermiera mi applicò il bracciale dello sfigmomanometro e stava proprio completando la misurazione della pressione quando rientrò il medico capo. Non era solo: era accompagnato da un gruppo, in maggioranza uomini, tutti con una maschera sul volto. I nuovi entrati si accomodarono, in silenzio, sulle poltrone disposte a semicerchio attorno a me.

Sentivo i loro sguardi violare il mio corpo; tutte le mie intimità spalancate ed in piena vista. In quel momento avrei preferito mille volte essere morta che stare lì, in quelle condizioni, di fronte a quei porci che si pascevano della mia vergogna.

Sentì le lacrime scorrere abbondanti sulle mie guance e cominciai a maledirmi per quelle poche ore di godimento trascorse con il mio segretario.

I due infermieri avvicinarono alla mia poltrona due carrelli con due diverse strumentazioni.

Uno di quegli apparecchi, lo conoscevo, era un elettrocardiografo; l’altro, pieno di manopole e di lampade spia mi era del tutto sconosciuto, ma non m’ispirava niente di buono.

Il primo apparecchio a cui venni collegata fu l’elettrocardiografo. Mi applicarono gli elettrodi adesivi ai polsi; alle caviglie; ai lati della fronte e sul torace.

Bip … Bip … Bip … , la macchina era accesa e segnalava la frequenza dei miei battiti cardiaci.

– Prova dolore. – annunciò ad alta voce il medico capo che stava tarando l’apparecchio.

L’infermiere che mi aveva applicato gli elettrodi al torace afferrò le mie belle tette con tutte e due le mani e le strizzò fino a farmi mugugnare dal dolore.

I Bip accelerarono di colpo.

– Stop. – ordinò ancora il medico.

L’infermiere aprì le mani ed i battiti cominciarono lentamente a rallentare.

– Ancora. – chiese nuovamente il medico dopo aver girato alcune manopole della macchina.

Questa volta l’infermiere si accanì sui miei capezzoli: li prese tra indice e pollice torcendoli e strizzandoli come si fa con le palline di mollica di pane.

– Perfetto. Tutto a posto. Possiamo anche incominciare la preparazione. –

Le parole del medico mi fecero capire che il momento di scontare la mia punizione si stava avvicinando. Dopo tutto quello che già avevo passato non sapevo se esserne felice o meno. Cosa poteva capitarmi di peggio? Nulla! Almeno questo era quello che credevo.

Dallo specchio vidi l’infermiera avvicinarsi con una bacinella e un paio di pinze a molla in mano. Usando le pinze prelevò dalla bacinella un batuffolo d’ovatta impregnato di uno schifoso liquido marrone e cominciò a passarmelo, sfregando con vigore, sui capezzoli prima, poi su tutta la mammella sgocciolando su tutto il torace. Il liquido era appiccicoso e ghiacciato. Mi lamentai, per quanto potevo, ma lei non se ne curò; poi si trasferì in mezzo alle mie cosce, e prelevato un nuovo batuffolo, me lo strofinò su tutta la vagina spalancata. Sentì il liquido scorrere in giù fino a bagnare il mio ano. Con un terzo batuffolo strofinò, facendomi veramente male, l’interno della vagina: il freddo era terribile, tanto che sentì, subito, le mia pelle reagire facendosi a buccia d’arancia. Fu poi la volta dell’ano. Anche lui ricevette lo stesso trattamento: prima fuori, poi dentro; e la perfida si divertì a sfregare ben bene nel mio buchetto, entrando ed uscendo più volte con batuffoli sempre nuovi e, mi sembrava, sempre più impregnati di quel liquido appiccicoso e ghiacciato.

Dai Bip … Bip… emessi dalla macchina capì che le mie pulsazioni stavano accelerando nuovamente. Anche il medico se ne accorse, ma con mia grande sorpresa, invece di fare qualcosa per tranquillizzarmi, anche lui si mise a strizzarmi le tette facendomi un male boia.

Stranamente, dopo aver accelerato, i miei battiti tornarono praticamente nomali. Ormai, mi venne di pensare, non provo più niente: pudore, vergogna, dolore. Mi stanno abituando a tutto. Qui ci sono una decina di persone che stanno guardando la mia fica rasata, il mio culetto senza peluria, una pinza con un batuffolo di ovatta che entra ed esce dal mio culo e non me ne frega più niente. Mi hanno ridotta una puttana senza pudore.

L’infermiera mi riscosse dalle mie auto commiserazioni prelevando un fascio di fili elettrici, dal ripiano sottostante la macchina che non conoscevo, e li posò sul mio stomaco man mano che li collegava agli spinotti della macchina. Ad alcuni capi liberi collegò delle pinze a molla del tipo reggi fogli, ma con i bordi irti di dentini.

Temetti di indovinare dove volevano mettere quelle terribili pinzette e sentì un brivido di paura scorrere lungo tutta la mia schiena.

– Signora Clara, – la stessa voce che riconobbi subito essere quella che mi aveva parlato durante il processo, era in piedi davanti a me, proprio al centro tra gli spettatori. – contro di lei è stata emessa una condanna a quaranta ore di elettro terapia. Lei oggi subirà dieci ore della terapia comminata. E così sarà per ogni Venerdì delle prossime tre settimane finché non avrà scontato completamente la sua condanna. Soltanto allora lei ritornerà nel pieno possesso di tutti i suoi diritti. Le persone, che sono qui davanti a lei, sono i giudici che hanno emesso la condanna e che testimonieranno che lei ha scontato completamente la pena. Si cominci. –

Un’ondata di terrore mi travolse all’improvviso: non sapevo cosa mi avrebbero fatto da quel momento in poi, ma sapevo ben che avrei dovuto subire per altre tre volte lo stesso calvario subito fino ad allora. Mi misi a piangere come una bambina mentre il medico si piazzava al centro delle mie cosce spalancate.

Non volevo sapere, ma gli occhi mi rimasero spalancati ad osservare il dottore che prendeva uno dei fili dalla mia pancia e lo collegava ad un lungo tubicino di metallo terminante con un microscopico rubinetto; me lo posò nuovamente sullo stomaco per prendere un altro cavetto che fu collegato ad un cono, lungo e stretto, con in punta una piccola pallina. Anche questo attrezzo finì insieme all’altro. Il terzo ed ultimo filo libero fu collegato ad una specie di gigantesca oliva allungata che, notai mio malgrado, era forato nel senso della lunghezza. Anche questo terminava con un rubinetto.

Mentre il medico compiva queste operazioni, riapparvero i due infermieri: ognuno portava un’asta porta flebo su rotelle che posizionò ai miei fianchi; ai ganci c’erano appese delle sacche di plastica, piccole e grandi, ma tutte gonfie e che riconobbi immediatamente: le stesse con cui mi avevano fatto i clisteri un secolo prima.

Non ebbi neanche il tempo di commiserarmi.

* Adesso, Clara, ti inserirò questo catetere – disse il medico impugnando il tubicino metallico, – nel canale ureterale, quindi riempirò la tua vescica con liquido sterile e chiuderò il rubinetto. –

Si chinò tra le mie gambe, allargò le mie grandi labbra ed infilò il catetere nel mio canale urinario. Un bruciore insopportabile mi scosse da capo a piedi: tentai di gridare, di fermarlo, ma fu tutto inutile. Lo vidi collegare il tubicino piantato dentro di me a quello pendente dalla sacca più piccola; immediatamente dopo cominciai a sentirmi la vescica piena, sempre più piena come se stessi per farmela sotto: ma non potevo. Il rubinetto che il dottore aveva chiuso mi impediva di fare pipì.

– Questo divaricatore a cono, invece, le sarà inserito nel collo dell’utero. –

In mano aveva anche uno specolo di dimensioni gigantesche. Me lo infilò nella vagina e lo allargò fino a togliermi il fiato.

– La cervice dell’utero è molto ben visibile ed il foro è già stato allargato, – disse rivolto non so a chi – farò in un attimo. –

Un dolore atroce, in basso, nella pancia, mi segnalò che la pallina era entrata nel mio utero, poi sentì, oltre al dolore che aumentava, la spinta dell’attrezzo che sembrava volesse arrivarmi fin nello stomaco: ero già distrutta e le dieci ore erano appena cominciate. Cos’altro volevano farmi ancora?

– Inserirò questa grossa cannula nel suo ano e le riempirò l’intestino con almeno quattro litri di soluzione salina sterile; questo consentirà alla corrente di correre lungo tutto il suo intestino. –

Oh dio, ma cosa volevano farmi? Fulminarmi?

Lo vidi abbassarsi nuovamente. Mi infilò senza tanti riguardi un paio di dita cariche di vaselina nell’ano. Le tolse, le infilò nuovamente nel barattolo di lubrificante e me le spinse di nuovo dentro. Questa volta doveva avermene infilate almeno tre: mi sentì l’ano dilatarsi come non avevo mai provato; poi, con un unico movimento, sfilò le dita e mi piantò quel gelido paletto nell’intestino. Immediatamente dopo aprì il rubinetto e l’acqua cominciò ad inondarmi.

Fu la volta delle pinze. Ne prese una e si chinò nuovamente tra le mie cosce cominciando a masturbarmi il clitoride.

Ero in una situazione folle eppure, incredibilmente, sentì che il mio sesso rispondeva. Sentivo il clitoride gonfiarsi sotto le esperte manipolazioni del dottore. Improvvisamente un dolore atroce, mai provato: i denti delle pinze stavano mordendo spietatamente il mio piccolo bottoncino gonfio.

Ero piena da scoppiare: quattro litri di liquido nella pancia; la vescica gonfia come un pallone; abbassai gli occhi e vidi la mia pancia sformata come se fossi in cinta; il clitoride mi mandava pulsazioni dolorose da impazzire. No. Ero certa di non farcela a resistere per dieci ore.

Quasi non mi accorsi di quando mi applicarono le altre due pinze ai capezzoli. I crampi alla pancia mi stavano facendo impazzire.

– Come avete avuto modo di constatare con i vostri occhi, – disse il medico evidentemente ai membri della giuria – sono stati immessi oltre quattro litri di liquido nella pancia della condannata. Il gonfiore si può notare senza sforzo; in più, abbiamo immesso nella sua vescica 500 cc. di liquido sterile. La vescica dovrà essere svuotata ogni due ore e quindi nuovamente riempita. Gli elettrodi sono stati tutti collegati, quindi siamo pronti per cominciare la punizione. –

Udì gli scatti di alcuni interruttori e subito dopo cominciai ad avvertire uno strano formicolio. Formicolio alle mammelle, formicolio nella vescica, nella vagina, nel mio culo ed in tutta la mia pancia e soprattutto al mio clitoride. Lentamente il formicolio aumentò; mi sentivo stranamente tesa aspettando l’immancabile dolore che ero certa stesse per arrivare. Con sgomento, invece, mi accorsi improvvisamente di avere gli occhi spalancati come fanali e tutti i muscoli del corpo tesi come corde di violino: quel formicolio era piacevole; mi piaceva sempre di più man mano che aumentava. Mi sentivo eccitata quasi come se stessi per raggiungere un orgasmo…

No, non era possibile… non in quelle condizioni; piena da scoppiare, con un paletto d’acciaio piantato nel culo che emetteva un perpetuo pizzicore; davanti a dieci persone che osservavano ogni mio buco, ogni millimetro quadrato del mio corpo … stavo per godere: non era possibile!

Invece sì. Me ne stavo venendo. Stavo per avere un orgasmo di quelli favolosi; da ricordare nella vita.

Ancora oggi, al solo ricordo, mi sento crescere l’eccitazione dentro.

Serrai gli occhi avvertendo l’aumento del formicolio della corrente elettrica; era insopportabile eppure piacevolissimo. Afferrai i braccioli della poltrona e tirai allo spasimo sollevando, per quanto possibile, la testa, il busto, le anche e gridai, gridai, gridai dentro me stessa, stringendo tra i denti la palla di gomma che mi impediva di urlare al mondo il mio godimento.

Improvvisamente il formicolio cessò ma fu come se il mio corpo non se ne fosse accorto: ero come in preda alle convulsioni. Gli orgasmi continuavano a susseguirsi ad un ritmo impressionante: non avevo mai provato niente del genere; mi calmavo per qualche istante per ricominciare immediatamente dopo a tremare e scuotermi in preda ad un’altra serie di orgasmi. In poco più due minuti ne ebbi almeno una trentina. Pian piano mi calmai ma, a brevi intervalli di tempo, i muscoli della vagina e dell’ano ricominciavano a tremare irrigidendosi senza che il mio cervello impartisse alcun ordine.

Dio, non potevo credere a quello che mi era successo.

Ero sfinita; svuotata di ogni energia, spalmata sulla poltrona.

Aprì gli occhi e mi vidi riflessa nello specchio: stentai a riconoscermi. I capezzoli, nonostante il dolore delle pinze, erano grossi e dritti come pollici. La pancia ed il pube mi tremavano come se fossero fatti di gelatina.

Con orrore mi accorsi che gli spettatori erano tutti in piedi; si erano avvicinati e mi fissavano, da brevissima distanza, eccitati dai miei orgasmi, dalle mie reazioni convulse. Poi mi resi conto che non me ne fregava niente: loro non sapevano cosa avessi provato; quale piacere mi avesse regalato la loro punizione; fui quasi tentata di ringraziarli mentalmente finché il formicolio delle scosse non riprese.

Nella mia testa, tutto divenne improvvisamente rosa; i muscoli s’irrigidirono nuovamente lottando contro i legacci; e ripresero anche gli orgasmi; lenti, non più rapidi come prima, ma potenti, forse più potenti.

Ero sfinita; non avevo più saliva nella bocca. Le braccia, le gambe, le spalle, il collo erano tutto un dolore.

Durò a lungo, questa volta; almeno un quarto d’ora, ma non fu piacevole come la volta precedente: gli orgasmi, quando arrivarono, erano diventati dolorosi, insopportabili. La testa mi pulsava come se ci stesse lavorando dentro un martello pneumatico. Le mammelle mi erano diventate di fuoco; l’ano mi bruciava da impazzire; volevo andarmene, volevo scendere da quella maledetta poltrona, togliermi di dentro tutti quei tubi, volevo pisciare, volevo cagare. Mi accorsi che stavo piangendo come una disperata: ero disperata.

Le scariche elettriche si fermarono; lentamente riuscì a rilassarmi. Non sapevo cosa mi facesse più male: ero tutta un unico, grande dolore.

Il formicolio riprese, leggero ma costante: ancora diverso dalle volte precedenti. Aumentava e diminuiva; aumentava e diminuiva portandomi sull’orlo dell’orgasmo per lasciarmi lì, insoddisfatta sia nel piacere che nel dolore.

Lentamente arrivarono gli orgasmi: piacevoli; dolorosi; forti; appena percettibili; non lo so; non lo ricordo più.

Non ricordo quante volte la corrente cessò di percorrere il mio corpo; quante volte mi dettero il tempo di riprendermi per ricominciare a punirmi subito dopo.

Credo di essere svenuta, perché i miei ricordi si perdono per riprendere con il medico che mi stava auscultando il cuore con lo stetoscopio.

– Tutto bene; è una donna molto forte, e, devo ammettere, con un corpo ed una sessualità veramente eccezionali. – le sue mani mi accarezzarono le tette soffermandosi sui capezzoli straziati dalle pinze, poi scesero in basso spingendomi sulla pancia – l’intestino è duro, ma ancora regge molto bene – poi mi premette sul pube facendomi mugugnare dal dolore – È ora di prosciugarle la vescica: anche se ha sudato molto, i suoi reni hanno prodotto sicuramente una gran quantità di liquidi, che aggiunti al mezzo litro che le abbiamo istillato noi, devono averla portata al limite della resistenza. –

Sentì che trafficava tra le mie cosce ed immediatamente dopo avvertì una sensazione di benessere celestiale: la mia vescica si stava svuotando.

Non m’importava niente di farmi vedere da tutta quella gente mentre pisciavo: era una sensazione meravigliosa che mi ripagava abbondantemente dell’umiliazione che stavo subendo.

Brividi di piacere percorrevano tutto il mio corpo mentre si allentava la pressione nella mia vescica; mi sembrò durasse un’eternità: sicuramente quella fu la più lunga pisciata della mia vita; non finiva mai.

Purtroppo, invece, terminò; l’infermiera tolse la bacinella nella quale era fluita tutta la mia urina e la punizione ricominciò.

Come aveva annunciato all’inizio, il medico collegò nuovamente la cannula che stava saldamente infilata nel mio canale ureterale alla sacca più piccola che pendeva sopra di me ed incominciò a riempirmi nuovamente. Avvertì nettamente il freddo della soluzione sterile allagarmi la vescica finché non mi sembrò, di nuovo, di aver bisogno urgente di urinare; ma questa volta non mi fu permesso. Dovevo tenermela per altre due interminabili ore.

Subito dopo il formicolio della corrente ricominciò a farsi sentire in tutto il mio corpo e ricominciarono gli orgasmi: piacevoli, devastanti, crudeli, dolcissimi.

Passai per tutte le gamme e le sfaccettature del piacere e del dolore: volevo che quella punizione finisse all’istante o aspettavo con ansia l’esplosione del prossimo orgasmo; maledicevo il mio corpo per essere così sensibile o mi crogiolavo nel piacere dei piccoli, ripetuti, ravvicinati orgasmi. Di una cosa però ero certa: non sarei sopravvissuta a quella punizione.

Dopo che la mia vescica fu svuotata e riempita per la quarta volta, ero talmente sfinita, distrutta, priva di ogni minima forza che ebbi la certezza che al primo nuovo potente orgasmo sarei morta.

Non fu così. Seppi di aver superato le prime dieci ore di punizione quando mi accorsi che il medico stava togliendo le pinze che mi avevano martoriato i capezzoli.

Il dolore fu terribile.

Evidentemente tutti sapevano quali sarebbero state le mie reazioni, infatti, mi accorsi, con sgomento, che erano tutti e dieci nuovamente intorno a me, a pascersi dell’ultimo dolore che mi stavano procurando. Ultimo dolore, ma non ultima umiliazione. Quella arrivò proprio alla fine quando, dopo aver tolto le sonde dal canale urinario e dal collo dell’utero, il medico si accinse a togliermi il paletto dal culo. Avevo sperato che mi sciogliessero permettendomi di andare in bagno, da sola; non fu così. L’infermiera depose un secchio sotto il sedile della poltrona un attimo prima che il medico sfilasse la grossa cannula.

Sentì avvamparmi dalla vergogna, ma provai anche lo stesso enorme, indicibile piacere che avevo provato ogni volta che mi avevano svuotato la vescica.

I due infermieri mi sciolsero e mi sorressero mentre mi facevano indossare nuovamente il camice. Sorreggendomi, mi condussero ancora nella stanza del medico capo, dove il dottore mi sottopose a nuovi controlli. Massaggiarono le mie parti intime ed i miei capezzoli martoriati con creme ed unguenti lenitivi.

Impiegai più di un’ora per riprendere un accettabile controllo di me stessa e delle mie forze.

Mentre mi aiutava a rivestirmi, chiesi all’infermiera che ora fosse: le sei e quarantacinque di sabato mattina. Ero entrata in quello studio quasi dodici ore prima ed ora stavo per uscirne dopo aver subito la più sconvolgente esperienza della mia vita.

Il Medico Capo, aprì gentilmente la porta dello studio per farmi uscire.

– Un taxi l’aspetta all’ingresso – mi disse – non è il caso che guidi nelle sue condizioni. Vada a casa e si faccia un lungo sonno ristoratore. Noi ci rivedremo venerdì prossimo alle diciassette. Mi raccomando: sia puntuale se non vuole che le raddoppino la pena. –

serva soddisfa sessualmente i padroni e gode con loro

Non aveva ancora diciotto anni, altezza 1,65, quarta abbondante di seno, capelli castani, un po’ paffutella, colorito rubicondo tipico delle ragazze cresciute nella campagna trevigiana, quando Teresa si presentò, con le poche cose personali dentro una valigia consunta, alla casa di quelli che sarebbero divenuti i suoi padroni, il professor Guido e sua moglie Silvia, che risiedevano in una palazzina dentro le mura della città di Treviso.

I due coniugi erano molto affezionati a sua madre e la accolsero con simpatia cercando di non farle pesare il distacco dalla campagna e la mancanza dei familiari, soprattutto dei quattro giovani fratelli e sorelle, che lei aveva in quegli anni accudito sostituendosi alla madre, lasciando ora tale compito alla sorella Carla, non ancora sedicenne.

Il professor Guido è laureato in medicina, ricercatore universitario, ha 55 anni ed ha sposato Silvia, una bella donna, alta e bionda, dai seni piccoli e sodi, di quasi trent’anni più giovane, avendone da poco compiuti 28; lei si è innamorata di quel signore vecchio stampo, raffinato e cortese, ma anche molto impegnato nel suo lavoro e che in qualche modo la trascura, concedendole pochi momenti di vera intimità e spazi di sessualità ridotti al lumicino.

E’ in questo contesto che Teresa si inserisce, all’inizio preoccupata di esser gradita ai padroni, sempre servizievole e pronta ad ubbidire com’anche a svolgere ogni incombenza; Silvia l’ha presa in simpatia, svolge il suo ruolo di padrona senza alcuna forzatura, anzi spesso la incoraggia e la consola nei momenti in cui la vede con un velo di tristezza negli occhi.

In pochi mesi Teresa si ambienta bene, sa stare al proprio posto ed è diventata una brava serva, apprezzata dai padroni che, di tanto in tanto, le concedono un giorno di libertà per poter tornare a casa a riabbracciare i familiari ed in particolare la cara mamma che fortunatamente si sta riprendendo, sebbene il decorso della malattia si profili ancora piuttosto lungo.

Tra lei è la padrona all’inizio non vi è molta confidenza, pur se passano molte ore in casa assieme; Teresa a volte cerca di leggere nei suoi pensieri, soprattutto quando la vede triste, ma non si azzarda a chiederne i motivi temendo di essere indiscreta, o ancor peggio di urtare la suscettibilità che potrebbe anche costarle il posto di lavoro.

Rimane perciò ancor più sbigottita quando un pomeriggio passando davanti alla porta della camera padronale, raccoglie dei gemiti provenire dall’interno, teme che la signora si senta male e sta per fiondarsi all’interno senza bussare ma si trattiene, riflette, appoggia il lobo sulla porta, ha il cuore in gola quando la socchiude per guardare all’interno.

Gli occhi scuri della serva guardano increduli: Silvia è distesa sul letto vestita, con la gonna sollevata, una mano è nascosta dentro le mutandine nere, inserita dall’alto oltre l’elastico e sta massaggiandosi, ha le palpebre chiuse e dalle labbra esce un soffio costante che ogni tanto diventa borbottio.

Teresa stenta a crederci, la padrona compie lo stesso atto che anche lei ha imparato a svolgere qualche volta al buio, nell’intimità della sua stanza, non ha alcun dubbio si sta masturbando, non lo credeva possibile, immaginava che queste cose fossero proprie delle persone non abbienti.

Quella scoperta la metta per qualche giorno in ansia, ha come il timore che quel segreto sia un fardello troppo pesante da portare, è sempliciotta ma anche morbosamente curiosa, cerca di cogliere qualche sintomo diverso dal solito nella padrona ma il comportamento in sua presenza è sempre lo stesso, cortese e distaccato, a volte persino altezzoso.

Continua a spiarla constatando che si richiude con una certa frequenza nella sua camera per abbandonarsi alla masturbazione, ha imparato a conoscerne i prodromi: sono le letture di certi libri che lei tiene addirittura sotto chiave in una libreria a vetri; quando legge in salotto il viso si stinge della consueta dolcezza, diviene più contratto, crescono le smorfie, le strette delle cosce, all’inizio Teresa credeva fosse il bisogno di correre a fare la pipì, invece sono le letture erotiche che la costringono ad allontanarsi e distendersi a letto per toccarsi fino a raggiungere l’orgasmo.

La serva ha imparato persino a riconoscerne i sospiri, gli attimi precedenti al piacere ultimo, giorno dopo giorno si fa strada nella sua mente l’idea di ricattarla, di costringerla…; Silvia è tendenzialmente una donna molto pudica e non si è mai mostrata senza veli alla serva, la quale però durante i suoi appostamenti ha potuto verificare “de visu” le sfumature più nascoste del suo splendido corpo, il monte di venere ricco di peluria bionda, le tette appuntite con areole piccole e brunite, due capezzoli irti e lunghi, il culo piatto e sodo.

Non senza una certa apprensione Teresa decide di prendere l’iniziativa, lo fa quando avverte che il respiro è diventato lungo, sazio, qualche attimo dopo che è sicura la padrona abbia raggiunto la rilassatezza susseguente l’orgasmo: bussa ed entra nella camera da letto, finge di dover chiedere qualcosa, lo fa sottovoce ma Silvia è lesta a coprirsi il ventre con un lembo delle lenzuola e non risponde si fa credere assopita.

Teresa sa bene che non può dormire ma sta al giuoco e si avvicina al letto continuando a parlarle sottovoce, la padrona però insiste nel falso sonno, anzi si gira meglio di lato fingendo di non sentire la voce della serva, che può guardare da vicino gran parte delle lunghe gambe scoperte ed un seno che trabocca dalla scollatura.

Una forza di cui non si credeva capace spinge Teresa ad allungare una mano, solleva con delicatezza il lembo delle lenzuola scoprendo le mutandine nere che risaltano sulla pelle chiara, raccoglie nel palmo il brivido che percorre il corpo di Silvia al contatto con la coscia, ed anche il malcelato tentativo di soffocare il respiro affannoso che sopravviene non appena le dita si infilano oltre l’orlo, carezzando la peluria ricciuta.

E’ una straordinaria sensazione di potenza quella che gonfia il petto della serva durante la lunga masturbazione, prima leggera, poi persistente e incisiva, Silvia non può sottrarsi al piacere che quei toccamenti le donano, è costretta ad affondare la bocca sul guanciale per non far sentire alcun suono al momento dell’esplosione che le contorce le membra, si limita a salvaguardare la finzione del suo sonno e Teresa esce dalla stanza con le dita impiastricciate di sughi vaginali.

Lo sguardo malizioso della serva non intacca il distacco con cui Silvia si approccia con lei più tardi, le ordina di servire il tè in veranda e mentre lo sorbisce le rivolge parole scontate, in relazione a quanto da preparare per la cena, senza mostrare alcun imbarazzo per quanto avvenuto poco prima, solo un brivido al momento di un lieve sfioramento del braccio da parte di Teresa, lascia ben sperare quest’ultima sul prosieguo della sua iniziativa.

Gli ingressi in camera da letto divengono più frequenti e Silvia non da la sensazione di esserne infastidita, lentamente la serva sta facendo scrollare di dosso quella ritrosia pudica che accompagnava fino ad alcuni giorni prima gli incontri in deshabillé con la giovane.

Il professore è uscito di casa di primo mattino quando Teresa entra nella stanza trovando Silvia ancora a letto assonnata: vuole che le porti la colazione in camera signora?

“no ancora no grazie Teresa, stamane necessito prima di un buon bagno caldo”

“se vuole glielo preparo io, anzi se ha piacere vorrei essere io a lavarla, sono brava sa, a casa prima che la mamma si ammalasse lo facevo a tutti i miei fratelli e sorelle”

E’ la prima volta che Silvia si fa vedere completamente nuda dalla serva, scivola all’interno della vasca colma d’acqua, non è solo il calore ma anche un senso di vergogna che le arrossa la pelle del viso, appoggia la testa sul bordo e socchiude gli occhi guardando di sottecchi le grosse poppe che traboccano dal davanzale del grembiule di Teresa.

Nella stanza da bagno si può sentire solo lo sciacquio dell’acqua mossa dalla serva, ella insapona con la spugna soffermandosi a lisciare i bottoncini dei capezzoli lunghi e duri, che sembrano volersi protendere, poi scende sullo stomaco ed infine ristagna a lungo sulla fessura dischiusa, colma di umori che l’acqua non permette di apprezzare appieno.

Teresa la fa girare, è la volta della schiena ad essere levigata dalla morbida spugna che mette solletico e brividi, Silvia ha il respiro affannato quando avverte le dita insaponate che affondano nelle natiche prima di spingersi all’interno delle rotondità, ove si insinuano e frugano con perdurante delicatezza ma anche con asfissiante continuità.

Questa volta non può fingere di dormire quando le dita della serva allargano le grandi labbra della fica protendendosi verso il clito, che viene trattenuto, massaggiato, esposto, poi sono solo lunghi fremiti quelli che la accompagnano verso l’orgasmo.

E’ molto turbata quando Teresa la asciuga fuori dalla vasca prima di farle infilare l’accappatoio, vorrebbe allontanarla ora che la libidine si è sopita, ma la serva ormai conosce la sua fragilità e non demorde: no aspetti signora, prima le voglio fare un buon massaggio alla schiena, vedrà poi si sentirà come rigenerata.

Silvia non riesce a sottrarsi, si distende a letto così come le è stato suggerito, con la faccia sul cuscino e le braccia conserte sopra la testa, Teresa le è salita sopra a cavalcioni, la padrona capisce che si deve essere tolta le mutande perché avverte la sua folta peluria strusciare sul fondo schiena mentre le mani unte d’olio iniziano a massaggiare il collo, scendendo sulle spalle.

Non sono solo le mani che scivolano sul corpo ma anche lo sfregamento della peluria sulla pelle che fanno tendere Silvia come un arco, sopraffatta dalla intraprendenza di quella giovane contadina, che dopo un tempo che le pare interminabile giunge in corrispondenza delle chiappe: sente la fica nuovamente stracolma di sughi quando le allarga le cosce e si inserisce con le ginocchia dentro le sue gambe, facendole sollevare il culo.

Sono singhiozzi di piaceri quelli che emette Silvia quando avverte la bocca della serva poggiarsi sul culo per baciarlo, leccarlo, morderlo, mentre le mani spalancano le natiche esponendo il buchetto grinzoso.

……no, no basta cosa fai, mugola Silvia disperatamente con la voce soffocata dal cuscino……ma Teresa non l’ascolta le forza il buchetto con un dito unto, si spinge appena dentro sentendola irrigidirsi, poi si capovolge con le mani le solleva i fianchi ed affonda la bocca sulla fica strappandole un urlo di piacere…..

Silvia sembra impazzita, si contorce, si dimena, soffia, sbuffa, sparla, urla e schizza sughi dentro la bocca della serva che le divora ogni anfratto insaziabilmente.

Anche Teresa quando si rialza è turbata, pensa di essersi spinta fin troppo oltre, ha la prontezza di dire che va a preparare la colazione e si allontana riuscendo a trovare quella calma interiore che le permette di restare in posizione dominante verso la padrona, la quale si sente invece in totale sudditanza verso quella giovane ed intraprendente campagnola.

Sono uscite assieme quel mattino per fare la spesa, la padrona vestita di tutto punto con un cappellino azzurro e Teresa con il solito abito da lavoro: è la serva che porta le borse stracolme tanto che negli ultimi acquisti in drogheria è costretta a farsi aiutare da Mariella, una sedicenne che da una mano in bottega, la quale è ben lieta di farlo e si avvia con il borsone meno pesante seguendole verso casa.

Mariella è una ragazzina minuta con capelli corti e corvini, seni appena pronunciati, gambe affusolate, viso simpatico ed occhi neri e vispi, Teresa la guarda maliziosa con uno sguardo che la padrona ha imparato a conoscere e che in qualche modo la preoccupa, ma anche la infastidisce, scoprendosi persino gelosa.

Vado a mettermi a mio agio dice rivolta a Teresa facendole cenno di seguirla in camera e qui esprime tutta la sua agitazione soffiandole addosso: cosa ti sei messa in mente di circuire anche quella ragazzina…….sei impazzita…….

Teresa le appoggia un dito sulle labbra per farla tacere, glielo infila in bocca facendoselo succhiare, Silvia è affannata non sa resisterle, quando la serva assume l’iniziativa perde ogni capacità reattiva, con la mano libera Teresa solleva la gonna e le palpa il pube da sopra le mutandine, con vigore quasi con tracotanza, mentre le sussurra: spogliati e mettiti nuda a letto, lo sai come ti voglio trovare……fra poco arrivo……

Aiutami a riporre la spesa in dispensa dice a Mariella che è rimasta ad aspettarla anche per ricevere una mancia, ormai Teresa è diventata fin troppo sfacciata e quella ragazzina ha un qualcosa che le ispira maliziosità, sono gomito a gomito quando le chiede a bruciapelo: da quanto tempo ti masturbi?

Mariella ha un lieve sussulto, arrossisce leggermente e poi sussurra: e tu come fai a saperlo?

Perché lo facciamo tutte sciocchina, ho scoperto che lo fa anche la mia padrona!

La ragazzina la guarda perplessa ed incredula, tenta di schernirsi quando Teresa allunga una mano sotto il grembiule e corre a solleticarle la fichetta sopra le mutandine, e mormora senza troppa convinzione: lasciami stare dai mi vergogno……

Teresa è lesta ed abile, due dita raggiungono la peluria e si intrufolano dentro la fichina, trovandola umidiccia, quei toccamenti ingrossano il respiro della ragazzina e la fanno eccitare mentre la serva le appoggia la bocca su un lobo mormorando: piace anche a te vero porcellina, se vuoi ti faccio guardare la mia padrona, è molto bella e sensuale sai, adesso però devi far finta uscire, sbatti la porta d’entrata e poi seguimi in punta di piedi e fermati sulla porta della camera.

Silvia è distesa a letto nuda, con le gambe spalancate, una mano sul pube lo accarezza lasciando che le dita solchino le grandi labbra dilatandole, prima di levigare il clito.

Osserva con occhi lucidi per la libidine l’ingresso di Teresa alla quale si rivolge: se n’è andata finalmente, ti voglio solo per me, ti desidero tanto, dai toccami, leccami, fammi quello che vuoi, sono tua……..

La serva sale con le ginocchia sul letto mettendosi di fianco in modo da lasciare ampio campo visivo a Mariella, ha una mano dietro la schiena nella quale serra una banana, che all’improvviso fa balenare davanti agli occhi della padrona.

Oh mio dio cosa vuoi fare mormora con la voce incrinata, mentre Teresa finge di non sentirla e comincia a sbucciarla facendo emergere il frutto, al quale toglie la piccola prominenza nera prima di appoggiarselo sulle labbra per poi iniziare a succhiarlo come un cono di gelato……

…….falla succhiare anche a me ti prego, mormora con voce straziata Silvia che è entrata in una specie di stato confusionale…….Teresa continua a far finta di non sentirla, si leva il frutto dalla bocca e glielo infila dentro la fica strappandole un gemito prolungato……

“porca, porca, vuoi scoparmi, oh sì, sììììììì, ancora, ancora……..”

Teresa continua a spingerla dentro mentre la buccia si sfalda liberando il frutto che entra sempre più a fondo riempiendole la vagina, quando poi rimane fuori solo la parte terminale, la impugna saldamente e comincia a chiavarla con vigore facendola rimbalzare sul letto mentre da oltre la porta Mariella guarda intontita la scena con una mano dentro le mutandine.

Quando la vede contorcersi dal piacere Mariella esce in fretta dalla casa senza fare rumore, e si perde la scena finale che vede Teresa estrarre la banana colma di sughi, leccarla fin sulla punta prima di metterla in bocca alla padrona, alla quale gliela fa masticare per gustare i suoi stessi sapori.

Questo episodio consente a Teresa di perfezionare il suo progetto e da quel giorno le prove a cui sottopone la padrona divengono sempre più imbarazzanti ed irreversibili; Silvia è disposta a tutto pur di accontentarla, seppure ha un unico tremendo terrore, che il marito possa accorgersi od anche solo sospettare qualcosa di quella insana relazione, e di ciò la serva ne è consapevole e ne alimenta l’apprensione proprio per renderla docile e sottomessa.

Capita spesso che di sera, dopo cena, il professore debba chiudersi nel suo studio per finire delle relazioni e Silvia da qualche tempo non ha nulla da eccepire quando la serva chiede di essere aiutata a sparecchiare la tavola, a volte viene anche obbligata a lavare i piatti, proprio perché le entri bene in testa che i ruoli in casa sono cambiati: la padrona è diventata Teresa!

Non è tanto questo comunque che angoscia Silvia, ma il fatto che Teresa diviene giorno dopo giorno sempre più audace, pretende di toccarla anche quando il marito è in casa, con il rischio che magari possa comparire da un momento all’altro.

Teresa è incredibilmente fantasiosa e si eccita al solo pensiero di vederla piagnucolante mentre supplica di evitare mosse azzardate in presenza del professore, cosa che invece viene regolarmente disattesa.

E’ in questo clima che Teresa decide di coinvolgere anche Mariella, la quale si presenta un mattino sotto mezzogiorno alla porta di casa dicendo ad una Silvia rimasta sorpresa di vedersela di fronte: Teresa arriverà più tardi sta finendo le spese, mi ha pregato di aiutarla a portare delle borse che adesso le consegno.

“entra pure ti prego, posso offrirti una aranciata, aspetta che voglio darti anche qualcosa per la tua cortesia”

Mariella si siede in cucina beve il bicchiere di aranciata, raccoglie la mancia e guarda con occhi scuri e luminosi quella bella signora, di cui conserva ben nitida la visione del suo corpo nudo, poi spiffera con voce che ha un tono quasi impertinente: ti ho vista l’altro giorno con Teresa, voglio farlo anch’io!

Silvia ha un singulto, non immagina nemmeno che l’abbia spiata a letto, teme solo che abbia potuto interpretare qualche sguardo, cerca di trovare una certa calma interiore e le parole giuste prima di risponderle con voce sussurrata e forzatamente sorridente: che hai visto dai, non farti strane idee, sei ancora una ragazzina, sono solo affezionata a Teresa……

La giovane le risponde attraverso un sorriso beffardo ma profondamente sensuale, allunga una mano per raccogliere una banana dal cestino in mezzo al tavolo, la fa librare davanti agli occhi increduli e spaventati di Silvia e poi si alza dalla sedia girando intorno alla tavola e portandosi al suo fianco: non mi dirai che questa non la conosci, vi ho spiate ed ho sentito tutto, voglio farlo anch’io con te!

Silvia è impaurita, piagnucola e borbotta: no, non possiamo, sei troppo piccola, ti prego…….

“no, non sono piccola, l’ho già fatto altre volte ed ora lo voglio fare con te, accarezzami……”

La mano di Silvia ha come uno scossone, si sposta dal proprio grembo ove era ricaduta ed entra sotto il grembiule della ragazzina, avverte la peluria delle cosce rizzarsi al pari del manto di una gatta che fa le fusa, è lei però che freme ed indugia travolta dalla voglia di proseguire che si unisce alla paura di uno scandalo.

E’ Mariella che le toglie ogni tentennamento, molla la banana e si solleva con i palmi per sedersi sul tavolo della cucina, si alza il grembiule mostrando le gambe segaligne all’attaccatura delle quali spiccano le mutandine bianche, macchiate sul triangolino da una traccia paglierina dovuta ad un rigurgito di pipì e di umori vaginali.

Per qualche attimo ancora Silvia osserva abbacinata quella visione continuando a sfiorare l’incavo delle cosce mentre risale verso l’alto, quasi temendo di esercitare troppa pressione, prima di rimanere folgorata dalle parole così sfacciatamente crude della ragazzina: leva le mani, leccami, brava così sulle cosce, vai su, adesso ciucciami le mutandine, tienile in bocca, aspira porcellona…..ora infila la lingua sotto……..leccala………ti piace la mia topina vero……….

Silvia è assai più in apprensione della ragazzina e lo dimostrano i lunghi sospiri che le sconquassano il corpo, poi Mariella le blocca la testa trattenendola tra le mani per staccarla dall’inguine, la fissa qualche istante negli occhi leggendo al loro interno tutta la sua fragilità e la sferza ordinando: adesso sfilami le mutandine…..voglio goderti in bocca!

Mariella si allunga sul tavolo, solleva le gambe ed appoggia i talloni sopra il piano, spalanca le cosce e si offre alla bocca di Silvia, che infila le mani sotto le chiappe agguantandola e sollevandola appena per meglio affondare la bocca su quel gocciolante nido scuro: la succhia, la divora, la trafigge con la lingua, con un trasporto di cui non si riteneva capace, si abbevera a quella fonte vaginale impiastricciandosi le labbra ed il palato.

E’ così che le trova Teresa rientrata in casa senza farsi sentire ed è lei che interpreta magistralmente la commedia: che state facendo sporcaccione, e tu come ti permetti dice rivolgendosi a Mariella, che si finge impaurita, si tira su le mutandine e svicola via come preventivamente concordato, uscendo in un baleno di casa.

Teresa inveisce su una Silvia affranta che vorrebbe spiegare ma non ci riesce balbettando solo qualche frase di scusa: sgualdrina, facevi tanto la gelosa e poi basta che giri l’occhio e te la fai con prima che capita, non mi bastano le tue scuse, risparmiale pure, te la farò pagare!

Prendendola per un polso la solleva dalla sedia e la trascina in salotto, qui l’abbandona in mezzo al ballo mentre lei sprofonda sul divano ed ordina: spogliati svergognata!

Silvia ha il viso rigato dalle lacrime, sembra una bambina impaurita in preda ad un pianto convulso, le manca il coraggio persino di dare delle spiegazioni, si toglie il vestito poi l’intimo e resta a capo chino fintanto che la serva la fa avvicinare; le dita di Teresa affondano nella fica stracolma di umori, la scava, la graffia, la fa sobbalzare, ansimare, e continua ad insultarla: sei una vacca, ecco quello che sei, non hai più limiti, ti fai anche le ragazzine………

Con uno strattone la piega sulle sue ginocchia, ha la mano pesante, rude, callosa, la sculaccia con la stessa focosità di un maschio; Silvia ha il culo in fiamme, continua a piangere, si dimena debolmente, supplica un perdono che non arriva, si calma solo quando le dita si fanno carezzevoli e ritornano ad esplorala, a massaggiarla, a sditalinarla.

“sei una troia, una puttana, la mia puttana, vuoi essere solo mia vero?”

“sì, sì solo tua, gorgoglia Silvia mentre schizza sughi sui polpastrelli della serva”

Teresa non ha finito, vuole darle una lezione memorabile, agguanta una candela dal candelabro poggiato sul tavolino a fianco del divano, gliela infila nella vagina e comincia a fotterla: oggi voglio chiavarti così, ti piace vero sporcacciona?

Più Silvia la invita sommessamente a far piano, più l’altra spinge a fondo la candela spappolandole la fica, poi quando il cero è ben lubrificato lo insinua dentro le natiche, fino a ridosso del buchetto.

Ella si irrigidisce, trattiene il fiato, come sente la candela penetrare dentro lo sfintere ed affondare gradatamente, emette una flebile implorazione che non ottiene alcun effetto nei confronti della serva, la quale continua a forzarla fintanto che ne fa entrare quasi la metà.

E’ una scena spettacolare quella che vede Silvia inginocchiata ai piedi di quella che un tempo era la sua serva, costretta a lapparle la fica con la candela infilata nel culo, alla quale Teresa ha acceso lo stoppino per obbligarla a farla godere prima che il calore della fiammella raggiunga le natiche, o addirittura la fiamma stessa le scotti il culo.

Ormai Silvia è diventata un balocco nella mani della serva, che non le risparmia cocenti umiliazioni anche quando il marito è in casa, sono gli anni in cui è da poco iniziato il programma unico sulla televisione, spesso si ritrovano assieme a guardarla sul divano, dopo cena mentre il professore si richiude nel suo studio: nel buio del salotto rischiarato solo dallo schermo televisivo, per Silvia è l’inizio di un supplizio, terrorizzata com’è che Guido le scopra in atteggiamenti peccaminosi, a cui Teresa la obbliga con incredibile sfrontatezza.

La serva pretende che stia in sottoveste, senza intimo, con sopra la vestaglia da camera, che deve essere svelta a richiudere qualora avvertisse i passi del professore arrivare dallo studio, è la banana l’oggetto preferito dei giuochi imposti da Teresa, che la vuole vedere scoperta dalla cinta in giù, con le gambe spalancate, mentre si masturba con quel frutto che lei sceglie di misure consistenti ogni giorno, regolarmente, al mercato rionale.

Spesso Silvia è talmente confusa ed affannata che finisce con essere lei stessa che chiede a Teresa di baciarla, di morderle le tette o addirittura di succhiarle la fica, mangiando il frutto pregno di broda.

La svolta avviene però una sera quando viene invitato a pranzo un avvocato cinquantenne amico del professore, tale Marcello, cinquantenne brizzolato, impenitente donnaiolo, che non ha mai sentito la necessità di metter su famiglia e che è ancora uno scapolone d’oro.

Silvia ne ha sempre mal sopportato gli sguardi galanti ma equivoci, quell’uomo le è epidermicamente antipatico sebbene faccia buon viso le poche volte che il marito lo invita, ben sapendo che ciò avviene solo quando Guido ha necessità di ottenere dei pareri giuridici su certi suoi affari lavorativi.

Teresa invece è la prima volta che lo conosce e rimane affascinata dallo charme che quell’uomo emana, sa mostrarsi galante anche nei suoi confronti senza quella puzza al naso che solitamente nota nelle persone di ceto superiore.

Accortasi delle attenzioni dell’avvocato Teresa mentre serva a tavola, si accosta a lui con maggior insistenza per consentire prima un fugace tocco sulle cosce e poi delle palpazioni più consistenti che arrivano fino a sfiorarle le mutandine.

Il professore infervorato dai discorsi non si accorge di nulla mentre Silvia con la coda dell’occhio riesce a vedere qualcosa ed intuisce cosa stia accadendo; la cosa la inquieta ma non può far percepire la gelosia latente, e quando Marcello chiede permesso per andare in bagno Teresa è svelta ad offrirsi per fargli strada.

Silvia che si è alzata da tavola fingendo di dover prendere qualcosa in cucina, rimane folgorata alla fine del corridoio davanti alla porta socchiusa del bagno: Teresa è inginocchiata ai piedi dell’avvocato e lui la sta scopando in bocca, facendole tenere le labbra incollate sul randello che sbatte in gola.

Osserva la scena con il cuore in tumulto aspettando la conclusione che è imminente, gli schizzi di sperma vengono spruzzati sul palato, sulla bocca e sul viso di Teresa, mentre Silvia guarda stupita anche l’impressionante consistenza di quel cazzo che ora ballonzola davanti alla serva, gocciolante.

Quando Guido e l’avvocato si spostano nello studio per concludere i loro discorsi, Silvia trova la forza di redarguire la serva e minaccia persino di farla licenziare dal marito, accecata dalla rabbia crede con ciò di poter riacquistare il sopravvento su di lei, che invece reagisce pesantemente schiaffeggiandola ed insultandola: sgualdrina come ti permetti di farmi la predica, perché non confessi che avresti voluto essere tu al mio posto, visto che tuo marito te lo da assai di rado……..

“no, no, non è vero, risponde piagnucolante Silvia, io desidero solo te, voglio essere solo tua, lo sai….sarei disposta a tutto pur di accontentarti…….sono gelosa…..scusami…..perdonami……”

Teresa finge di farsi coinvolgere da quella confessione d’amore e di totale sudditanza, ma sono ben altri i pensieri che le frullano per la mente, sta per rendere compiuto un sogno che la accompagna sin da ragazzina: obbligare i comportamenti sessuali delle persone più grandi di lei, anche e soprattutto attraverso il ricatto.

La porta nella sua cameretta e la fa distendere vestita sul letto, le scopre i seni, le abbassa le mutandine, la coccola, la bacia in bocca, le lecca le labbra, cerca di calmare la sua ansia dovuta al pensiero che in casa ci sono anche suo marito e l’avvocato: non ti preoccupare, qui non verranno a cercarci e se li sentiamo arrivare troviamo una scusa……..

“vuoi essere la mia amante vero, la mia amante e schiava, disposta a tutto pur di accontentarmi, è così vero?”

“Sì, sì, tua, completamente………”

Amante e puttana, sai pensavo ti facesse voglia quel grosso arnese di cui è dotato l’avvocato, hai visto com’è grande e svettante, pensavo che desiderassi farti sbattere da lui, magari mentre mi stai succhiando la fica……..si potrebbe chiederglielo, non credo gli dispiacerebbe da come ti guardava tutta la sera………

Silvia nell’ascoltare quelle parole sussurrate ha un riflusso di piacere che tracima dalla vagina entro la quale le dita di Teresa affondano con ritmo incessante: no, no, cosa dici, quell’uomo mi fa paura, lo detesto, dev’essere un porco, un maiale, guarda come si è approfittato di te………

Teresa capisce dal come sta godendo che si tratta solo di ritrosia assai labile, ed insiste: io invece sono sicura che impazziresti nel sentirlo che ti spappola la fica, che te la gonfia, te la slabbra, te la riempie di sperma…….

“oh no, no, basta ti prego, sei tu che mi fai impazzire con questi discorsi……….è vero, è vero, è da tanto che ho voglia di essere scopata da un uomo virile……..ma tu non devi dirlo a nessuno……ti prego……deve restare un segreto tra noi due…….”

Alla diabolica serva quelle parole servono solo ad architettare un piano più sofisticato di quello a cui aveva pensato all’inizio, aspetta di avere il giorno di libertà per stare assieme a Mariella, lei vive con la nonna in una casa in periferia, e là rinchiuse dentro la sua camera da letto, si fa confidare ogni più intimo segreto.

Mariella è affascinata da quella campagnola autoritaria, ne subisce la sfrontata esuberanza, i modi diretti, incisivi, senza fronzoli, si fa coinvolgere ed è felice di farlo, si lascia spogliare completamente, distendere a letto, si abbandona nelle sue mani chiudendo gli occhi mentre viene frugata, masturbata, esplorata.

Confessa di aver perso la verginità a quattordici anni, quando lavorava in un altro negozio, il padrone l’aveva sorpresa a rubare una banconota nel cassetto dell’ufficio nel retrobottega, era disperatamente impaurita quando nel redarguirla se l’era seduta sulle ginocchia, le parlava con tono severo ma non la minacciava, fu quella la prima volta che conobbe l’eccitazione maschile attraverso la protuberanza che pulsava sbattendo contro il suo culetto.

Non si ribellò, anzi, dopo esserselo fatto strusciare da dentro i pantaloni, con il volto rosso fuoco guardò in piedi lui che se lo tirava fuori, poi glielo prese in mano ed infine si chinò a leccarlo e succhiarlo facendolo venire precocemente.

Ne divenne l’amante per qualche mese finchè la moglie non sospettò qualcosa, così che lui fu costretto a licenziarla con una congrua buona uscita.

Mariella accetta di accompagnare Teresa dall’avvocato, il quale sin dall’incontro in casa di Guido aveva pensato che non le sarebbe dispiaciuto farsi il culo di quella rubiconda serva, e stava infatti rimuginando di trovare la prima occasione utile per poterla rincontrare, è anche per questo che accoglie con maggior stupore l’ingresso nella stanza delle due giovani, appena annunciate dalla segretaria.

Teresa entra senza preamboli nell’argomento che le interessa: l’altra sera ho visto che era particolarmente interessato alla signora Silvia, se la mangiava con gli occhi, allora ho pensato che in qualche modo io potrei esserle utile.

“in che modo?”

“vede la mia padrona ha un debole per Mariella, che malgrado sia giovane è una gran porcellona, io le ho scoperte in casa in determinati atteggiamenti, ho pensato perciò che potesse interessarle conoscerne i particolari dalla viva voce della mia amica……..”

“E cosa te lo fa credere, ribatte l’avvocato fingendosi riluttante, pur se il cazzo si è immediatamente gonfiato dentro i pantaloni…..”

“così era una mia idea, ma se non la pensa come me possiamo anche andarcene….subito…..”

“no, no, aspetta, sono molto interessato infatti……..”

Adesso Teresa fissa negli occhi l’avvocato ponendo le sue condizioni, deve essere lei a condurre il giuoco, Marcello avrà il suo tornaconto di “piacere sessuale”, ma nei modi e nei limiti che saranno decisi da lei e tale è la sua “conditio sine qua non”…..

Marcello rimane impressionato dalla determinazione di quella giovane serva, non vuole contraddirla, è troppo allettante la sua proposta e si dice disponibile ad assecondarla.

Un sorriso di soddisfazione illumina il viso di Teresa, che allunga una mano verso Mariella, la quale è rimasta sin dall’inizio in posizione subordinata, con gli occhi bassi e senza mai intervenire; Teresa le accarezza il viso, scende con la mano a stringere una tettina appuntita e poi la abbassa sul grembo soffermandosi sul pube prima di spostarla sulle ginocchia da dove risale sollevando il vestito e scoprendo le cosce.

“su racconta all’avvocato cosa hai fatto con la mia padrona, di lui ti puoi fidare, ha anche un bel pisellone grande, se glielo fai rizzare magari dopo te lo fa succhiare……..”

Marcello pur avvezzo alle situazioni più esilaranti, ascolta intontito il racconto di Mariella, sopraffatto dalla libidine nel vedere la mano della serva che dopo aver messo in mostra le mutandine di cotone bianco della ragazzina, comincia a titillarle la fichetta, inserendo un dito dentro la vagina e spingendo all’interno l’indumento per farlo inzuppare di broda.

L’avvocato ha ascoltato in silenzio senza interrompere, si è solo limitato a sbottonarsi la patta per estrarre l’uccello gonfio, che tiene in mano lisciando la pelle serica.

Che ne dice è una bella storia vero, aggiunge Teresa alla fine, ma non riesce ad andare oltre perché Marcello sì è sollevato dalla poltrona sfoderando il cazzo teso che tiene in una mano, gira intorno alla scrivania avvicinandosi a Mariella ed aspetta che sia la serva ad impartire l’ordine di imboccarlo.

“puoi scoparla in bocca questa porcellina, spruzzale in gola un fiume di sborra, senti, senti com’è inzuppata fradicia, muore dalla voglia…….”

Silvia quel venerdì pomeriggio sta aspettando il marito che ha annunciato il rientro anticipato dal lavoro, al mattino prima di uscire di casa, è all’oscuro del fatto che Guido ha poi ritelefonato dicendo a Teresa di avvertirla che invece avrebbe fatto tardi e che non lo si aspettasse prima di cena.

Teresa è da poco uscita per effettuare delle compere, quando Silvia sente la chiave nella toppa ritiene proprio che sia il marito quello che sta entrando e si porta verso l’ingresso, ove resta bloccata nel corridoio, sorpresa ed impaurita nel vedere Teresa che entra facendo strada a Marcello.

“buongiorno Silvia”

“buongiorno avvocato, come mai qui, mio marito non è in casa ma dovrebbe rientrare a momenti”

L’ho trovato qui sotto e gli ho chiesto io di salire, risponde Teresa al posto di Marcello, mi stava dicendo che aveva delle notizie importanti da comunicare……..a proposito signora mi sono dimenticata di dirle che il professore aveva telefonato dicendo di riferirle che per un contrattempo, non sarebbe rientrato in anticipo ma alla solita ora per cena…….

Silvia adesso si sente scopertamente indifesa non potendo contare nel rientro del marito di lì a poco, ed è con una certa ansia, che non riesce a nascondere, che si rivolge nuovamente all’avvocato:

“prego se si vuol accomodare…….”

“grazie”

“le faccio preparare un caffè”

Sono seduti in salotto uno di fronte all’altra quando Teresa si allontana per preparare una moka, Silvia continua a guardare con aria perplessa l’avvocato, che tarda ad esprimersi, divertendosi ad imbarazzarla con profonde occhiate che la scavano dentro le cosce, che ella tiene ben strette per non lasciar trapelare alcun spicchio delle zone più recondite.

E’ con voce che denota una evidente apprensione che Silvia chiede:

“quali notizie importanti doveva comunicare avvocato?”

“si tratta di una denuncia rivolta contro di lei”

“oh mio dio e di che si tratta?”

“un’accusa grave, che potrebbe anche provocare una scandalo in città, ritengo comunque che lei sia fortunata perché chi gliela rivolge si è rivolta a me…..”

Il volto di Silvia in pochi istanti si dipinge di tutti i colori dell’arcobaleno, non ha più nemmeno la forza di chiedere migliori spiegazioni e resta frastornata e fremente in attesa che l’avvocato divenga più esplicito, mentre invece lui da come l’impressione di voler girare intorno al nocciolo della questione.

Teresa arriva con il caffè fumante e poggia le tazzine sul tavolino davanti ai due, raccogliendo una corposa carezza sul culo da parte dell’avvocato, che senza far nulla per nascondere il suo gesto, prosegue infilando una mano sotto il grembiule per meglio palparle il sedere dentro le mutandine.

Ella non da alcun segno di fastidio per tale ardita manipolazione, anzi si piega meglio in avanti fissando Silvia, che ora osserva la scena con gli occhi sbarrati ed il corpo che si agita sempre più convulsamente; è un lungo silenzio quello che incombe nel salotto prima che Silvia trovi la forza di mormorare: la prego avvocato, non le sembra di essere troppo invadente e maleducato anche nei miei confronti!

Lui da come l’impressione di non ascoltarla e si rivolge a Teresa: hai proprio un bel culo, sai a volte molte tue coetanee preferiscono cedere agli uomini più intraprendenti questa parte del corpo…….per preservarsi la verginità……

A Teresa diverte far rodere di rabbia la sua cosiddetta padrona, mantiene un sorriso malizioso e si rivolge a Marcello: lei è un bel porcone avvocato, non le è bastato farselo succhiare ora vorrebbe anche il mio culo e magari qualcosa anche dalla signora Silvia……

“adesso basta, esplode Silvia paonazza, smettila Teresa e lei avvocato si vergogni, come si permette di comportarsi in questo modo in casa mia”

“senti da che pulpito che viene la predica, sono qui per dirle mia cara signora che una mia giovane cliente, tale Mariella, vuole sporgere denuncia contro di lei per corruzione di minorenne, mi ha raccontato cosa avete fatto assieme e credo ci siano tutti gli estremi, non solo ma ha indicato come testimone Teresa…..”

Ora Silvia avverte un senso di soffocamento, porta una mano sulla bocca per frenare lo stato di convulsione che le toglie il respiro, è Teresa che le viene incontro con quella sua aria sbarazzina ma anche estremamente determinata, si siede accanto all’avvocato con fare suadente ed in un certo qual modo accondiscendente.

“lei non vorrà credere alle fandonie di una ragazzina, sì è vero la signora Silvia da qualche tempo è a corto di attenzioni maschili, si sente un po’ trascurata, può essere che abbia manifestato qualcosa di più di una carezza a quella troietta di Mariella ma non certo in termini di corruzione……”

Silvia si aggrappa a quell’ancora di salvataggio annuendo freneticamente come per dar continuità alle parole di Teresa, la cui mano ora sta lisciando la patta di Marcello: è un uccello già gonfio e svettante quello che lei estrae a fatica dai pantaloni mettendolo in mostra.

“che bel cazzo che hai avvocato, è così duro perché vorresti sbatterti la signora Silvia, vero sporcaccione, ho visto sai come la guardi, sei uno che la spoglia con gli occhi……”

Adesso è Marcello che bofonchia, pur se immedesimato nella parte congegnata dalla diabolica serva, trovarsi in quella situazione con la ragazza che le liscia la pelle del cazzo e la possibilità di poter gustare quel boccone prelibato di Silvia, gli sta facendo perdere lucidità.

Teresa si cala a baciare la cappella inumidendola appena con le labbra, poi si rivolge a Silvia.

“scopriti, mostragli le tette a questo porco”

“guarda i capezzoli come sono turgidi, è già eccitata la sporcacciona nel fissare il tuo cazzo”

“adesso solleva la gonna, mostra le tue belle cosce, abbassati le mutandine, mostragli la fica, brava così, adesso toccati, avanti masturbati puttana…..”

Marcello ha un sussulto quando Teresa imbocca il cazzo per un paio di pompate; lei lo sente pulsare, è gonfio, teso allo spasimo, sa che potrebbe scoppiare e si ritrae.

“vuoi che te lo faccia succhiare da lei o vuoi chiavarla, sbatterglielo dentro, farla urlare dal piacere?”

“voglio fotterla, fotterla, ansima Marcello con gli occhi fuori dalle orbite”

Ad un cenno della serva Silvia si solleva, con tre passi arriva di fronte a lei, trema vistosamente ma sa bene che non ha via d’uscita; Teresa con la sinistra tiene impugnato il cazzo e con la destra fruga la fica rorida di umori, l’avvocato è stravolto e mormora con voce supplichevole: ti prego dai fammela scopare…….

“non aver fretta, abbiamo tutto il tempo necessario, sentenzia Teresa”

Silvia viene fatta inginocchiare ai piedi della serva, è lei che deve scoprirla adesso, poi la fa risalire con le labbra lungo le cosce, si fa leccare, baciare, scostare il triangolo delle mutande ed affondare la bocca nella fica inzuppata.

“è tua adesso, prima puniscila, sculacciala se lo merita, poi voglio che la lecchi a fondo ed infine sbattila, pompala, slabbrale la fica, riempila di sborra”

Marcello non solo la sculaccia inculcandole il viso dentro le cosce della serva, ma anche la percuote con il suo enorme cazzo teso, sbattendoglielo sulle chiappe, poi la allunga scopre che quel ben di dio e comincia a lapparle fica e culo, trapanandole il buchetto, la fa godere, contorcere, ma è solo un assaggio perché il vero piacere l’avvolge nel momento stesso in cui il cazzo affonda nella sua vagina.

Sono colpi veementi, micidiali, che la estraneano dalla realtà, che inzuppano l’uccello di succhi e che le fanno ricevere un fiume di sborra che inonda la vagina.

Sono giorni difficili ed in qualche modo terribili quelli che seguono a questo incontro, Silvia è molto preoccupata per non dire affranta, ora capisce senza il benché minimo dubbio di essere ricattata, il rapporto con la serva poteva anche starci e rimanere segreto, ora però troppe persone sanno delle sue deviazioni sessuali, per strada si sente osservata anche a sproposito ed ha deciso di rintanarsi in casa.

A Teresa non è sfuggita questa involuzione, da un lato le consente di disporre meglio di lei, dall’altro però teme qualche colpo avventato che potrebbe compromettere l’equilibrio così ben congegnato.

Decide perciò di coinvolgere anche il professore, che all’evidenza resta l’unico ostacolo alla realizzazione del suo piano ricattatorio e comunica la sua decisione a Silvia in uno dei consueti incontri intimi.

“ma non puoi, sei pazza, Guido ci sbatterà fuori di casa tutte e due se solo si accennasse a qualcosa del genere”

“non è detto che lui debba essere cosciente”

“cosa vorresti dire?”

“che potremmo sciogliere del sonnifero nel vino, lo faremo sabato a pranzo!”

Silvia non è solo preoccupata ma terrorizzata durante il pranzo, teme che qualcosa non vada per il verso giusto, sebbene il marito sbadigli più del solito; deve anche subire la sfacciata esuberanza della serva nel momento in cui la segue in cucina solo per fare il punto della situazione.

“dici che faccia effetto, mi pare che sbadigli spesso, dice di aver sonno, mormora Silvia”

“sì, sì vedrai che andrà tutto bene, fra poco gli dirai che lo accompagni a letto e lo aiuterai a spogliarsi”

“sei tremenda Teresa, anche in una situazione come questa che mi angoscia, riesci a farmi eccitare”

“lo so, sei una gran sporcacciona, anche se fai fatica ad ammetterlo”

La voce assonnata del professore richiama Silvia in sala da pranzo, ma la serva la blocca.

“no aspetta, voglio frugarti prima”

“no, no, dai rischiamo di compromettere tutto, piagnucola Silvia”

Non fa però in tempo a finire la frase, che Teresa l’ha già piegata sul tavolo, un urlo strozzato accompagna l’inserimento di una piccola melanzana nella fica, gliela fa tenere stretta dentro la vagina trattenuta anche dalle mutandine e poi con un pizzicotto sul culo la rimanda dal marito.

E’ con seria difficoltà di movimenti che aiuta Guido a spogliarsi in camera da letto, è già in una specie di dormiveglia quando riesce a distenderlo sul letto con addosso solo la canottiera ed i boxer, egli borbotta qualcosa di incomprensibile sta per entrare nelle braccia di Morfeo, quando Teresa entra silenziosamente portandosi alle spalle di Silvia.

La serva avvolge da dietro la padrona, la stringe a sé, le scosta i capelli e le morde il collo, le stringe le tette, le apre il vestito, la spoglia, sussurra: ora facciamo l’amore in tre!

“aspetta, aspetta, è troppo presto, ma cosa vuoi fare….”

Il vestito è già scivolato a terra, quando la invita ad avvicinarsi al letto ed a prendere in mano l’uccello del marito: dai comincia a menarlo!

Silvia è in sottoveste, la serva le ha sfilato anche il reggiseno, la piega in avanti, guarda con occhi lucidi l’uccello che si sta ingrossando nella mano, pur se dorme il professore si sta eccitando.

“ora calati e leccagli la cappella, lentamente, vediamo come reagisce”

Silvia ha il cuore in gola ma esegue, fa girare la lingua sul prepuzio e il cazzo si scuote ingrossandosi di più, poi è Teresa che le cala la testa ed accompagna il ritmo blando del pompino, mentre con l’altra mano la chiava pompandola con la melanzana.

E’ Teresa che vuole imboccarlo per farlo eiaculare, glielo prende in bocca e lo succhia con dolcezza temendo di svegliarlo, mentre Silvia inginocchiata dietro di lei le lappa la fica stracolma di umori.

Questo stimolazioni, ripetute dalla serva e dalla moglie del professore anche in altre occasioni, oltre che portare all’orgasmo Guido dormiente o in una specie di dormiveglia, comunque in uno stato di incoscienza, hanno acceso in lui una verve sessuale da tempo sopita, tanto che il professore da alcuni giorni avverte rimestamenti dell’uccello per un nonnulla e quasi non sa darsene spiegazione.

Non solo, ma quello che avrebbe fino a qualche tempo aborrito, come il non osservare con occhi distaccati una serva o come l’apparire di un solo pensiero a tendenza sessuale nei confronti della domestica, ora invece sta diventando un tarlo che alligna nella sua mente.

Confida alla moglie: da qualche tempo ho spesso sonno, a volte mi sento stanco e mi sveglio appagato……..

“forse davvero lavori troppo amor mio, dovresti concederti qualche svago di più”

“è vero Silvia, il lavoro mi ha fatto trascurare anche te”

Si prendono qualche giorno di vacanza, tre per la precisione, e Silvia convince il marito a portare con loro anche Teresa, partono per una casa in collina di loro proprietà.

Teresa si è accorta che gli sguardi del professore nei suoi confronti sono cambiati ed approfitta delle tre ore di viaggio in macchina per dare bella mostra delle sue gambe cicciotelle, sedendosi nel mezzo del sedile posteriore.

Finge anche di appisolarsi con una mano poggiata sulle ginocchia aperte, che a causa dei sobbalzi, retrocede lentamente verso l’inguine, scoprendo abbondantemente le cosce e le mutandine bianche.

Silvia vede gli occhi di Guido puntati sullo specchietto retrovisore ed immagina la scena predisposta dalla impenitente serva, gli sorride e poi con voce tremula sussurra: Teresa sta dormendo vero, sarei un po’ stanca anch’io ti spiace se mi distendo sulle tue ginocchia, cerco di non darti fastidio nella guida.

Ella si accoccola e con la guancia avverte il turgore del cazzo in tiro, è la prima volta che assume un comportamento così spregiudicato nei confronti del marito, finge di sistemarsi meglio e apre la patta, lo imbocca e comincia a fargli un pompino, Guido ansima ma non ne ferma l’azione, finisce con sborrarle in bocca.

In un’area di servizio Silvia scende per ricomporsi ed è subito dopo che Teresa finge di svegliarsi, non fa nulla per coprirsi ed anzi rivolge un sorriso malizioso al professore che la osserva dallo specchietto retrovisore.

“ti sei svegliata, le dice con la consueta cortesia”

“sì, ma ho anche sentito e visto quello che è successo, forse sono stata io l’involontaria causa nel mostrarle le mie nudità”

Il professore è come colpito da una sferza, vede Silvia che si sta riavvicinando alla macchina, borbotta: sta zitta adesso, la signora sta per risalire!

Manca ancora più di mezz’ora all’arrivo e Teresa alza il tiro: si destreggia con cautela come se temesse di farsi vedere dalla padrona, fintanto che riesce ad abbassare le mutandine sulle cosce, spalanca le gambe e mostra la sua fica, coperta da una intricata foresta nera, poi se la dischiude con le dita mettendo in mostra le labbra rosso scuro, indi aggancia il clito e comincia a massaggiarlo con studiata lentezza.

Per Guido è un supplizio vederla ed ascoltarne l’ansimare, che per altro giunge all’indifferente Silvia, fino a destinazione.

Sono contatti di forte tensione quelli che si sviluppano quando la serva ed il professore sono vicini, ma è Teresa che decide il momento di scoprire le carte.

“devi smetterla di provocarmi le sussurra Guido in un momento in cui la moglie si trova in un’altra stanza”

Per tutta risposta Teresa glielo accarezza da sopra la patta, lo stringe, lo pizzica, lo fa indurire.

“basta sporcacciona, potrebbe arrivare mia moglie”

“e se non ci fosse vorresti che te lo succhiassi vero, o magari vorresti scoparmi vero porco di un professore”

Guido cede di schianto e non reagisce, un paio di secondi dopo la serva è inginocchiata ai suoi piedi e lo sta spompinando.

“oh mio dio Guido ma che stai combinando grida la moglie fingendosi adirata, quando entra nella stanza e lo trova con gli occhi chiusi nel momento stesso in cui sta sborrando in bocca alla serva”

Guido non può che assumere un atteggiamento mortificato nei confronti della moglie, che può così ribaltare la posizione a suo favore.

Teresa non vuol però perdere il controllo della situazione ed interviene subitaneamente: anche tu signora non puoi far tanto la puritana ho visto sai quello che hai fatto in macchina quando ti sei distesa sulle ginocchia del professore.

Non erano questo gli accordi e Silvia rimane perciò ancor più perplessa ed imbarazzata, e resta bloccata quando la serva le si avvicina.

“scommetto che ti sei eccitata nel vedere che facevo una pompa a tuo marito”

Guido osserva esterrefatto la moglie che si lascia piegare sul tavolo del salotto, le mani della serva che le sollevano il vestito scoprendole il culo prima di arrotolare le mutandine sulle cosce.

“oh sì lo immaginavo che ti eri eccitata, sporcacciona”

La serva ritira le dita umide dalla fica di Silvia e le annusa, poi la insulta e la sculaccia con quattro manate a palmo aperto, indi si rivolge al professore: vieni qui vecchio maiale, chiavala questa vacca.

Non vi sono più limiti nel menage di coppia in cui si è inserita la serva con tutta la sua perversione, ma Guido non conosce completamente i segreti della moglie, che vengono svelati solo quando l’avvocato viene invitato a cena.

Vi è una certa fibrillazione durante tutta la degustazione di cibi e bevande, servite in quantità per creare l’atmosfera giusta, in salotto oltre al caffè Teresa mesce anche super alcolici che contribuiscono a far aleggiare quella euforia necessaria alla conclusione della serata.

Marcello ha procurato alla serva un enorme fallo in legno lucido, che rappresenta tutta la sua simbologia priapea: è grosso, lungo, con un prepuzio che sembra vero, e due coglioni alla base tozzi e perennemente gonfi.

La serva entra in salotto con sopra il vassoio questo splendido oggetto ligneo e lo depone sul tavolino, lasciando allibiti il professore e sua moglie.

“ma, ma, come ti permetti Teresa, borbotta il professore con il viso infuocato”

“è per quella troia di tua moglie, voglio che si esibisca qui davanti a tutti, che si impali”

“ma, ma, sei impazzita, borbotta ancora il professore”

“non temere per l’avvocato, se l’è già sbattuta proprio qui in casa, in tua assenza”

Per Guido questo è un colpo che lo tramortisce ma anche lo fa schiumare di rabbia, guarda impotente la moglie affranta che si lascia denudare dalla serva, la quale poi la fa salire sopra il tavolino per impalarsi.

Con l’aiuto della serva Silvia assume dentro la vagina quell’enorme fallo, e si accuccia su di lui infilandoselo fin quasi alla radice, si sente piena, colma, oppressa, ed anche palpata, malmenata, pizzicata da Teresa che incombe su di lei e che ora comincia anche a vergarla con un frustino da cavallerizza.

Silvia piange, singhiozza, ma non suscita la pietà nemmeno del marito che anzi si alza di scatto e la apostrofa pesantemente, sfodera il cazzo duro e le abbassa la testa, comincia a scoparla in bocca con veemenza, sborrando dopo pochi colpi e venendo immediatamente sostituito dall’avvocato.