Punizioni di una mamma Mistress – Capitolo 4

Capitolo 4

Alcune osservazioni. L’aggiunta di una umiliazione di natura manifestamente sessuale a partire da quel giorno venne sistematicamente praticata su di me sia da mio padre che mia madre. Mia madre, per esempio, cominciò a sculacciarmi colla spazzola o la ciabatta non più tenendomi fermo con una mano sul collo, ma afferrandomi colla mano sinistra il cazzetto o i testicoli, che schiacciava e tirava per obbligarmi ad assumere la posizione che riteneva più conveniente per battermi. Pochi mesi fa, avendomi scoperto mentre mi masturbavo, è addirittura arrivata a frustarmi sul cazzetto rigido colla bacchetta sottile che usava per frustarmi da piccolo. Più in generale, quando mi comporto male mia madre sistematicamente, dopo avermi frustato, mi obbliga a portare infilato nello sfintere un dildo o delle palline da golf per il resto della giornata. Lei stessa, quando decide di frustarmi, mi apre la cerniera dei pantaloni, mi infila una mano nelle mutande e, afferratomi il cazzetto mi trascina in camera sua. Senza lasciare la presa mi spoglia nudo lei stessa e mi fa mettere a quattro zampe sul letto e solo in quel momento lascia la presa del mio cazzetto già rigidissimo per l’umiliazione. Poi apre l’armadio, ne stacca lo staffile e torna verso di me; colla testa tra le braccia vedo di sottecchi le sue gambe tornite e inguainate in calze sempre scrupolosamente nere e le strisce di cuoio dello staffile che le accarezzano i polpacci.
Quando é pronta mi ordina di non muovermi e comincia a frustarmi. Durante la punizione continua a ricordarmi che devo obbedire ai suoi ordini e che la frusta e l’unico mezzo di correzione adatto per me. Quando ha finito, mi afferra le natiche a piene mani, me le apre e mi infila nel sedere il manico dello staffile ordinandomi di contrarre lo sfintere per farlo muovere come se fosse una coda: e resta a guardarmi soddisfatta mentre compio questo esercizio umiliante. Altre volte invece, finito di frustarmi, apre il suo cassetto e ne estrae un dildo di gomma che lei stessa mi introduce nell’ano ordinandomi di tenercelo fino a quando lei non deciderà di togliermelo. Poi mi obbliga a camminare, sedermi, rialzarmi e mi assegna incarichi che comportino molti movimenti.

28 ottobre 1990
Vorrei ritornare oggi all’esame delle ragioni per le quali a 32 anni compiuti sono ancora sottoposto alle e volentieri accetto le punizioni corporali che mi infliggono mio padre e mia madre. Cominciamo da una osservazione di carattere assolutamente generale. Indipendentemente da qualsiasi considerazione circa il tipo di educazione che ho ricevuto, il contesto nel quale sono stato cresciuto o la mentalità di mio padre e mia madre, è normale che io rispetti alla lettera tutte le regole che vigono nella loro casa e ancora più normale che sia da loro punito quando le infrango; allo stesso modo in cui sarebbe assolutamente normale che venissi punito dallo stato se ne infrangessi le leggi. Va detto tuttavia che nessun normale cittadino viene punito dallo Stato a suon di cinghiate sul culo nudo; inoltre, a differenza di un qualsiasi cittadino che attraverso il proprio voto nell’ambito di libere elezioni può cambiare le leggi dello stato nel quale vive io non ho nessun potere né diritto di reclamare un cambio delle leggi vigenti nella casa dei miei genitori, nemmeno ora che ho 32 anni compiuti. E le leggi vigenti prevedono per qualsiasi violazione una prassi che è sempre la stessa: giù i pantaloni e frustato colla cinghia.
E questo è un fattore molto importante nello spiegare il mio masochismo.
Il mese scorso, per esempio, un giorno stavo chiaccherando con un mio compagno di classe. Eravamo seduti al bar dell’università e, quando mi disse che aveva avuto dei genitori terribili che fino ai tredici o quattordici anni lo avevano picchiato, sentii il cazzetto farmisi duro nelle mutande pensando che io assaggiavo ancora la frusta sulla pelle nuda. E non a tredici anni ma a 32, appunto. E quella stesso pomeriggio mio padre telefonò a casa per sapere come era andato l’esame di analisi uno mentre mia madre, che già lo sapeva, mi aveva legato alla spalliera del letto e mi stava picchiando il culo nudo col battipanni. Mia madre gli disse che avevo preso solo venti; poi rimase un momento in silenzio e poi disse:
“Sì col battipanni … no avevo appena cominciato … sì … sì chiaro che poi stasera gliele dai anche tu colla cinghia … vabbè … sì no, adesso … ah, puoi stare ben sicuro che glielo scaldo il culo!”
E il cazzetto mi si indurì sotto gli occhi di mia madre!
Rientrò un po’ più presto, come faceva di solito quando decideva di frustarmi. Io ero in camera mia, in mutande, e quando sentii la porta di ingresso richiudersi cominciai a ricordarmi del mio primo periodo universitario. Allora, prendere solo venti in un esame aveva sempre significato essere frustato di santa ragione: ora, prendere solo venti in un esame che avevo già fatto undici anni prima avrebbe significato farsi strappare la pelle del culo a cinghiate. Sapevo benissimo che mio padre mi avrebbe dato una battuta memorabile e sentendo i suoi passi nel corridoio il mio cazzetto cominciò a indurirsi pulsando nelle mutande.
Pochi minuti dopo mio padre entrò in camera mia e in mano teneva la canna di bambù. Mi spogliò completamente nudo lui stesso, mi fece appoggiare alla spalliera di una poltrona in modo che il sedere rimanesse bene in alto e appoggiò la canna alle mie natiche, prendendo a picchiettarmele mentre mi diceva di non muovermi se non volevo che mi bastonasse anche la schiena. Poi cominciò a battermi colla canna.
Sentivo solo lo schiocco secco e bruciante del bambù rimbalzare sulle natiche nude e, a un certo punto, cominciai anche a sentire un liquido caldo e appiccicoso corrermi giù lungo le cosce: e capii che mio padre mi stava frustando a sangue, ma che non aveva nessuna intenzione di sospendere la mia punizione per questo. Passò invece a bastonarmi la schiena di santa ragione, e smise solo quando me ne ebbe strappato la pelle.

* * *
E una seconda osservazione, di carattere più specifico, riguarda appunto le caratteristiche della mia presenza in questa casa. In estrema sintesi si può dire che ne sono stato abitante forzoso fino all’età di 18 anni, confinato virtuale fino ai 29 anni, evaso tra i 29 e i 32 anni, e, da pochi mesi, schiavo senza condizioni.
Esaminiamo separatamente queste tappe della mia vita in casa.
Fino all’età di 18 anni vissi come figlio, soggetto alla volontà assoluta e alla potestà legale di mio padre e mia madre. Poi venni posto di fronte ad un’alternativa. Mezz’ora prima che diventassi maggiorenne mio padre mi ordinò di andare in camera mia e di denudarmi; non riuscivo a capire per quale motivo avesse deciso di frustarmi poiché non avevo fatto nulla, ma l’esperienza mi aveva insegnato che fare domande o peggio ancora obiezioni rappresentava una razione doppia di frustate. Quando entrò teneva già la cintura dei pantaloni ripiegata nella mano destra e mi ordinò di girarmi colla faccia verso la parete.
Era mezzanotte meno venti quando cominciò a frustarmi, e per venti minuti continuò a battermi in silenzio le natiche nude colla cinghia. Nonostante le natiche mi bruciassero sempre più forte io rimanevo in piedi sull’attenti senza muovermi: consideravo assolutamente normale che a 18 anni mio padre mi frustasse, perché ero sempre stato abituato così anche se invidiavo molto i miei amici che non dovevano sottostare a nessuna disciplina e men che meno a quella della frusta.
A mezzanotte mio padre smise di frustarmi e mi presentò due alternative: andarmene di casa e sostentarmi con i miei soli mezzi e in questo caso quello che avevo appena ricevuto sarebbe stato l’ultimo castigo della mia vita o restare, accettando di continuare ad attenermi scrupolosamente alle regole di casa e in questo caso il fatto che fossi diventato maggiorenne non avrebbe in alcun modo cambiato il rapporto di dipendenza che fino a quel momento mi aveva legato all’obbedienza assoluta a mio padre e mia madre e all’accettazione incondizionata di qualsiasi loro castigo. Optai per la seconda ipotesi, in quel momento convinto che il motivo fosse solo la certezza di non potermi mantenere da solo. Ora mi rendo conto che già allora, anche se non me ne accorgevo razionalmente, il bruciore che provavo sulle natiche ogni volta che venivo frustato era una droga più potente di qualsiasi anelito indipendentista.
Appena ebbi dato la mia risposta, mio padre mi disse che per suggellare la continuità della nuova fase colla vecchia avrebbe ripreso la punizione che aveva appena terminato di infliggermi. E fattomi rimettere colla faccia al muro ricominciò a frustarmi. Compii diciotto anni sotto le cinghiate di mio padre.

29 ottobre 1990
Da quel giorno cominciai un lento ma inesorabile cammino che mi condusse, attraverso una sistematica violazione dei miei diritti umani, fino alla privazione della libertà e alla perdita definitiva e legalizzata dei miei diritti civili. Ecco come. Quella notte, ricominciando a frustarmi, mio padre aveva detto che lo stava facendo per suggellare la continuità della vecchia fase colla nuova. In realtà più che di una continuità si tratto di una recrudescenza dei periodi più severi della vecchia fase. Mio padre e mia madre, probabilmente, pensavano che nel momento in cui avessi compiuto la maggiore età avrei deciso di andarmene per sfuggire a quelle che allora, stupidamente, consideravo le loro”angherie”. Per questo motivo, la mia decisione di restare dovette convincerli della bontà dei loro metodi educativi e inconsciamente spingerli a rafforzare su di me l’imposizione della loro autorità che a partire dai miei 17 anni era andata forse un po’ affievolendosi.
Per questo motivo, di lì a una settimana mio padre mi presentò un documento di venti pagine dattiloscritte intitolato “Programma di Disciplina Morale”, che conteneva un Regolamento composto di 500 norme che coprivano interamente tutti i dettagli del comportamento che avrei dovuto mantenere e tutte le punizioni che mi sarebbero state inflitte in caso di violazione del Regolamento stesso. Attraverso questo Programma, di fatto, mio padre e mia madre assunsero un controllo strettissimo della mia vita. Per uscire di casa dovevo chiedere ed ottenere il permesso di entrambi fornendo i nomi e gli indirizzi delle persone che avrei visto, rimanere fuori non un solo minuto in più del tempo concessomi, e riferire dettagliatamente al mio rientro che avevo fatto, dove e con chi. Mancare ad una sola di queste regole o mentire comportava ipso facto essere confinato in camera mia tutto il giorno (con l’esclusione delle ore di lezione all’università) per un periodo compreso fra i quindici e i sessanta giorni, ed essere frustato tutte le sere prima di andare a letto. A questo si aggiungeva che tutta la corrispondenza che ricevevo o scrivevo doveva essere previamente letta dai miei genitori che me la riconsegnavano se e solo se lo ritenevano opportuno; tutte le telefonate che facevo o ricevevo erano ascoltate da uno dei genitori sull’altra linea; il mio libretto universitario era minuziosamente sfogliato ogni mese e i cassetti della mia scrivania giornalmente aperti e controllati da mia madre. Le punizioni, invece che sul momento (come era accaduto sino ad allora), presero a essermi somministrate la sera prima di andare a letto. Dovevo presentarmi in cucina e chiedere il permesso di andare a dormire: se non c’erano obiezioni mi veniva concesso, viceversa dovevo denudarmi, piegarmi sul tavolo e ricevere la frusta o il battipanni sulle natiche, ringraziare e ritirarmi. Un elemento nuovo fu invece l’introduzione di una punizione fissa il sabato: ogni sabato pomeriggio mi venivano somministrate 200 frustate che, nell’ambito del Programma di Disciplina Morale, semplicemente svolgevano una funzione di richiamo ai dettami del Regolamento, una specie di ricordatorio della mia subordinazione alle sue disposizioni.

31 ottobre 1990
Questo regime durò fino all’età di 27 anni ed incise moltissimo sullo sviluppo della mia personalità nei rapporti con i miei coetanei. All’università, per esempio, un giorno mi capitò di non riuscire a stare seduto fermo in una sola posizione per più di trenta secondi perché la sera precedente mio padre me le aveva suonate colla frusta. Il mio continuo agitarmi sulla sedia incuriosì il compagno che sedeva di fianco a me e che me ne domandò la ragione. Quando gli dissi che ero stato frustato volle che andassimo al bagno insieme perché gli mostrassi i segni della punizione. La mia indole masochista mi aveva spinto a confessargli di essere stato frustato e ora non potevo rifiutarmi di esaudire quel suo desiderio. Entrati nel bagno mi condusse rapidamente ad uno dei gabinetti, chiuse a chiave la porta e, con un tono che non ammetteva repliche, mi ordinò di spogliarmi. Mentre mi denudavo lo vidi guardarmi con gli occhi luccicanti di libidine. Quando fui nudo mi fece girare e, ansimando, cominciò a passare le mani sui segni delle cinghiate. Poi prese a darmi pizzicotti sui segni, torcendo la pelle arrossata tra il pollice e l’indice e strizzandola sempre più forte. Cominciai ad ansimare anch’io, in preda ad un senso di umiliazione violentissimo ed eccitante: ero completamente nudo e costretto a subire le sue sevizie.
Dopo due o tre minuti mi obbligò a stendermi a pancia in giù sull’asse del water e mi ordinò di mettere la testa nella tazza che puzzava di orina. Si abbassò a sua volta i pantaloni e prese a strusciarmi il membro semi rigido sul culo! E mentre sentivo quell’arnese farsi sempre più duro cominciai a pensare con orrore che stavo per prenderlo nel culo, e feci come per divincolarmi, alzando la testa dalla tazza. Lo schiaffone mi centrò violentissimo sull’orecchio destro come una cannonata,
“Buono lì bastardo! Non ti muovere o ti gonfio di botte!” e afferratomi per il collo mi rituffò la testa nella tazza del cesso. La paura cominciò a diventare terrore e cominciò a smuovermi il basso ventre e sentire l’aria fresca entrarmi in culo mi fece venire i tremori allo sfintere. E com’era inevitabile, successe. Sentii il buco del culo dilatarmisi e la bolla d’aria calda e puzzolente uscire senza che potessi fare niente per trattenerla. Avevo cominciato a scoreggiare dalla paura, e questo fece imbestialire il mio compagno che riprese a picchiarmi insultandomi. Mi dava dei ceffoni sulle orecchie che mi facevano sbattere la testa contro i bordi del water, e più mi picchiava più scoreggiavo.
Era come quando mio padre mi frustava: quando lo vedevo slacciarsi la cinghia mi mettevo a scoreggiare dalla paura. Non riuscivo a fare niente per fermarmi. Allargandomi le natiche, mi appoggiò l’uccello che aveva durissimo contro il buco del culo. Mi penetrò con una lentezza esasperante e, visto che io mugolavo di dolore, cominciò a prendermi a ceffoni sulle orecchie.
Intontito ed eccitato dalla violenza degli schiaffi smisi di sentire il dolore nell’ano che si trasformò in una vera e propria estasi: in pochi minuti quell’enorme palo di carne mi stantuffava lo sfintere con colpi decisi e violenti e, in breve, mi sentii inondare il sedere della sua sborra bollente. Ma il gioco non era finito. Con l’ultimo colpo di reni mi estrasse l’uccello dal sedere con un sonoro PLOP!; poi mi afferrò per le spalle e mantenendomi in ginocchio mi girò verso di se e cominciò a strofinarmi l’uccello semi rigido sulle guance. Un minuto più tardi me lo mise in bocca e mi ordinò di succhiarglielo e ripulirglielo “della merda colla quale glielo avevo imbrattato”.
Il suo glande turgido mi soffocava e io non riuscivo ad accarezzarglielo colla lingua bene come lui voleva. Perciò lo estrasse e, giratomi di nuovo verso la tazza del cesso, iniziò a castigarmi il sedere nudo colla cinghia dei suoi pantaloni. Colle natiche martoriate dalla punizione di mio padre la sera precedente, cominciai a piangere e lo implorai che smettesse di frustarmi, ma senza esito. Dopo cinquanta colpi circa, mi girò di nuovo verso di se e mi rimise in bocca il cazzo che stavolta aveva durissimo.
Afferrandomi i testicoli colla mano sinistra e frustandomi la schiena colla destra, iniziò a pistonarmi le gengive e in pochi minuti venne nella mia bocca: strizzandomi atrocemente i testicoli mi costrinse ad ingoiare tutto. Poi mi obbligò a ripulirgli l’uccello colla lingua, si rimise i pantaloni e uscì, ordinandomi di non muovermi dalla posizione in cui mi trovavo. Pochi minuti dopo la porta del gabinetto si riaprì ed entrò un altro mio compagno: un istante prima che si richiudesse la porta alle spalle riuscii a vedere che fuori del gabinetto una decina di altri miei compagni si erano messi in coda, ciascuno aspettando il proprio turno per incularmi e farsi spompinare.
Da quel giorno divenni la loro puttana. Ogni mattina almeno due o tre mi portavano nei gabinetti, mi spogliavano nudo, mi picchiavano e mi inculavano; e spesso accadeva che dovessi soddisfare due di loro allo stesso tempo: in questo caso, a carponi sul pavimento, dovevo spompinare un compagno seduto sul cesso mentre un altro mi possedeva nel sedere.