Capitolo 3 – Frustate e punizioni in estate

Dicevo che quella punizione ora mi fa sorridere, ed è sicuro perché da quel giorno il livello di severità delle mie punizioni andò aumentando progressivamente, fino al giorno d’oggi, quando essere frustato colla cinghia dalla parte della fibbia rappresenta un castigo lieve, direi quasi un lusso.

Di fatto, il giorno seguente a quella punizione mio padre più che mantenne la sua promessa e comprò non una ma tre fruste. La prima la comprò effettivamente da un carrettiere. Sembra incredibile che in una città come Roma esistesse ancora un carrettiere, eppure mio padre riuscì a trovarlo. Mentre mostrava il campionario delle sue fruste a mio padre il vecchio artigiano mi guardava ammiccando e ghignando divertito; evidentemente immaginava benissimo che il vero motivo di quell’acquisto sarebbe stato quello di frustarmi il sedere di santa ragione e, sadicamente, disse a mio padre che volendo poteva mettersi nel retrobottega a collaudare tutte le fruste che avesse voluto. Era evidente che il vecchio artigiano doveva essere un amante del genere SM, e il fatto che fosse rimasto unico in tutta Roma a gestire una bottega come quella lo indicava chiaramente. Così come chiaramente lo indicarono i suoi occhi mentre ci seguiva nel retrobottega.

Ricordo ancora quel retrobottega buio che puzzava di pellame: mio padre mi ordinò di togliermi i vestiti e quando fui completamente nudo mi fece mettere colla faccia al muro. Aveva scelto dodici fruste differenti e mi frustò con tutte prima di decidere quale comprare.

Mentre mi contorcevo sotto i colpi di frusta cercando di non urlare, notai che il vecchio artigiano si era messo ad assistere alla mia punizione non alle mie spalle, bensì alla mia sinistra e vidi che aveva la patta dei pantaloni gonfia di una erezione più che evidente. Rendendomene conto, la mia eccitazione, che già era il doppio del solito per la presenza di uno spettatore, raggiunse un livello inaudito, e il mio cazzetto svettava durissimo, colpendo colla punta nel muro a ogni staffilata di mio padre. A un certo punto, visto che ormai urlavo come un ossesso e ogni tanto tentavo addirittura di ripararmi il sedere in fiamme colle mani, il vecchio satiro propose a mio padre di legarmi e gli mostrò una serie di bardature per cavallo che facevano perfettamente alla bisogna. Innanzitutto, con un paio di briglie mi legò i polsi a una trave che passava sopra la mia testa e poi mi imbavagliò con un morso di acciaio legato con strisce di cuoio dietro la nuca. Mio padre, entusiasta alla soluzione del vecchio, decise di provare altre dieci o quindici fruste che andò a scegliere nella bottega adiacente.

Rimasti soli, il vecchio si pose alle mie spalle, si aprì la patta dei pantaloni estraendone un grasso uccellone enorme e durissimo e, appoggiandomelo al solco delle natiche, prese a strizzarmi atrocemente i capezzoli senza dire una parola. Quando ormai stavo per mettermi a piangere, il vecchio mi aprì le natiche e mi inculò con violenza inaudita. Cominciando a pistonarmi l’ano ansimando, con una mano mi strizzò i testicoli e con l’altra cominciò a spararmi una sega, chiamandomi puttana masochista. E quando mi sentii inondare il sedere della sua sborra bollente, spruzzai violentemente la mia sulla parete di fronte.

Pochi minuti dopo mio padre tornò con altre fruste e, messosi dietro di me, ricominciò a frustarmi di santa ragione con tutte. Alla fine decise di comprare due fruste. La prima era uno staffile, costituito di una sola striscia di cuoio piuttosto spessa e che recava al finale come un fiocco: essendo lunga due metri, ogni frustata che mio padre mi somministrava sulla schiena mi avvolgeva il tronco e il fiocco finale di cuoio si abbatteva schioccando su l’uno o l’altro dei capezzoli. La seconda era un nerbo di bue, lungo un metro circa e dolorosissimo che mia madre prese a usare per frustarmi sulle cosce nude. La terza frusta, invece, mio padre la ordinò su misura a un laboratorio di pelletteria. Era uno staffile interamente in cuoio, con un manico di 32 cm. dal quale si dipartivano 45 strisce di cuoio sottile lunghe 58 cm. l’una; sinceramente devo dire che a quello staffile, tuttora in uso peraltro, sono legati i ricordi di alcune tra le più intense battute che ricevetti da mio padre.

In ogni caso, quelli non furono gli unici strumenti di castigo che si comprarono in casa. Pochi mesi dopo, infatti, mio padre comprò in rapida successione tre frustini che divennero i compagni più affezionati della pelle nuda delle mie natiche soprattutto quando eravamo fuori di casa; quando andavamo al mare o in montagna, per esempio, mio padre se ne portava dietro perlomeno sempre due. Devo dire tuttavia che le vacanze, estive o invernali che fossero, rimarranno per sempre indissolubilmente legate al ricordo di un altro strumento punitivo, forse ancora più umiliante della stessa frusta: il bastone.

Ricordo che fui bastonato per la prima volta a 18 anni, al mare.

Una mattina ero uscito con alcuni miei amici per andare a fare un giro in uno dei boschi che stavano dietro casa nostra, e mio padre mi aveva ammonito di non rientrare più tardi di mezzogiorno. Non aveva bisogno di aggiungere altro, perché era regola fissa che ogni minuto di ritardo comportasse due cinghiate. Cionondimeno, quel giorno non mi resi conto del tempo che passava e, dopo aver lasciato gli amici, imboccai il sentiero verso casa alle 12:30 senza nemmeno accorgermi di essere in ritardo.

Mi ricordai di guardare l’orologio solo quando vidi mio padre avvicinarsi: vedendolo, e immaginando il motivo per il quale doveva essere venuto a cercarmi, il cazzetto mi si fece subito dura nel costume da bagno. Quando mi raggiunse vidi che era anche lui in costume e pensai che per questo mi avrebbe frustato in casa. Invece lui mi prese per l’orecchio sinistro e, senza dire una parola, mi sistemò di fronte a un albero e mi ordinò di stare fermo lì. Udii il rumore di un ramo spezzato: girando rapidissimo la testa vidi che aveva in mano un ramoscello al quale andava strappando le foglie. Allora mi abbassai il costume alle caviglie, come di regola quando mi dava la frusta in cabina, e sporsi in fuori il sedere nudo, sicuro che me lo avrebbe frustato col ramoscello. Ma non fu così. Mio padre mi ordinò di rimettermi il costume e di cominciare a camminare verso casa.

Il primo colpo mi raggiunse sulla schiena e mi fece accorgere che più che di un ramoscello si trattava di un vero e proprio bastone. E per tutto il sentiero verso casa mio padre mi bastonò. Per la prima volta non mi sentii più solo sottomesso a mio padre e mia madre, ma addirittura loro schiavo. In quel momento infatti mi immaginai uno schiavo costretto a trasportare un carico pesante sotto le bastonate del padrone.

E questa fantasia andò arricchendosi di particolari quando, giunti a casa, la punizione continuò nella legnaia. Mio padre mi ci mandò ordinandomi di denudarmi e aspettarlo. Il caldo lì dentro era umido e soffocante nella penombra delle cataste, e questo me lo fece diventare duro. Perché inconsciamente il caldo e la sensazione di sudare per me erano e rimangono indissolubilmente legati all’idea di prenderle sul sedere colla cinghia.

Mi chiusi la porta alle spalle e nella penombra indovinai il contorno delle cataste; quando i miei occhi si abituarono alla luce fioca cominciai a guardarmi intorno e vidi dei sacchi di farina e moltissime corde appese alle pareti di legno. Pensai che le avevo provate quasi tutte e sempre sulla pelle nuda, e risentendo nella mia mente il sibilo che provocavano tagliando l’aria e lo schiocco che producevano sulle mie chiappe quando mio padre mi ci frustava, il cazzetto mi si indurì al punto da debordare oltre l’elastico del costume e cominciò a farmi addirittura male per l’eccitazione. Mi abbassai il costume lungo le natiche e le cosce colla lentezza di una spogliarellista consumata, facendo volutamente strusciare l’elastico sul reticolo di vesciche che perennemente ricoprivano il mio sedere grazie alle frustature quotidiane di mio padre. Il pizzicore di questo auto-castigo mi eccitò ancora di più e, dopo aver liberato il culo, mi abbassai il costume sul davanti facendo scorrere l’elastico sul cazzetto che, quando fu liberato da quella costrizione, svettò durissimo verso l’alto. Pensando alle frustate che stavo per prendere, mi sdraiai a pancia in giù su uno degli enormi sacchi di farina e presi a strofinare il glande contro la tela ruvida. Abbracciato al sacco, dimenavo il sedere e lo sporgevo bene in alto e in fuori; stavo aspettando che mio padre venisse a frustarmi colla trepidazione di una sposina novella.

Ma c’era anche un altro elemento che mi eccitava da morire. Sapevo che se mio padre fosse entrato e mi avesse visto spararmi una sega su quel sacco mi avrebbe frustato la merda dal culo; tutte le volte che mi sorprendeva a spararmi una sega letteralmente mi strappava la pelle dal culo a cinghiate. Sentendo i suoi passi fuori della porta mi fermai e rimasi piegato a pancia in giù sul sacco.

Quando entrò mi ordinò di alzarmi e, vedendo la mia erezione, capì benissimo che stavo facendo. E si preparò a farmene pentire amaramente. Non aveva in mano il frustino come avevo pensato. Si avvicinò ad una delle cataste, scelse un bastone lungo circa un metro e si pose dietro di me. Cominciò a bastonarmi. Le legnate mi piovevano sulla schiena, sulle gambe e sulle braccia e il dolore era micidiale al principio. Ad un certo punto, visto che cercavo di sgattaiolare per evitare i colpi, mio padre smise per un momento di bastonarmi, mi afferrò per un braccio, mi trascinò alla scala che conduceva all’ammezzato della legnaia e, con una delle corde appese alle pareti, mi legò polsi e caviglie ai pioli della scala.

E riprese a bastonarmi.

Venir legato per essere picchiato scatenò i miei istinti masochisti più feroci: il dolore insopportabile delle bastonate cominciò a diventare il bruciore forte ed eccitante che sempre provavo quando mio padre mi frustava e le fantasie della mattina si riaccesero violentissime. Mio padre mi stava bastonando forte, ero sudato fracido e sentivo il sudore gocciolarmi sotto le ascelle e tra il solco delle natiche. Ma il sudore non era l’unica cosa che mi gocciolava dalle natiche. In quel preciso momento, infatti, mio padre prese a bastonarmi proprio il culo, e io sentii lo schiocco secco del bastone sulla carne flaccida delle chiappe: era più forte di quello della cinghia e sentivo che rompeva la pelle.

Dopo una trentina di bastonate mi accorsi che il bastone mi tagliava la pelle ogni volta che si schiantava sul culo: mio padre mi stava bastonando a sangue, ed era il sangue che mi usciva dalle natiche che mi faceva sentire meno il dolore delle bastonate. Abbassando gli occhi, vidi che dietro di me si era formata una pozzanghera di sangue.

“Il padrone sta bastonando il suo schiavo nudo e legato” pensai e cominciai a roteare le anche e muovere il sedere per tentare di strofinare il glande su un piolo della scala. Non lo trovai, e questa nuova frustrazione mi eccitò ancora di più. Poco dopo mio padre smise di bastonarmi, si diresse di nuovo verso la catasta dalla quale aveva scelto il bastone che aveva appena finito di usare per castigarmi e ne estrasse un bastoncino di un paio di cm. di diametro e circa trenta di larghezza. Tornò a mettersi dietro di me e io cercai di immaginare che volesse farmi. Poi d’improvviso mi afferrò le natiche e me le aprì e le mantenne aperte colla mano sinistra: senza dire una parola appoggiò la punta del bastoncino al mio ano dilatato e ve lo introdusse con una lentezza esasperante. Mi sodomizzò fino a farmi penetrare il bastoncino per metà e mi disse:

“Visto che sei un asino ti meriti non solo le bastonate ma anche la coda!” E se ne andò.

Credetti di morire! Il bastoncino penzolava oscenamente tra le mie natiche, muovendosi davvero come una coda attraverso gli spasmi del mio sfintere violato e il piacere che mi stava dando quell’estrema umiliazione era devastante. Improvvisamente mi rividi all’università chiuso in un gabinetto con i pantaloni e le mutande abbassate e uno dei miei compagni di classe che, sdraiato su di me, mi sodomizzava ansimando. Ancora legato, colla schiena a pezzi per le bastonate, l’ano torturato e il cazzetto duro da scoppiare venni sussultando senza toccarmi.

Ma un altro strumento col quale feci conoscenza quell’estate fu il tubo di gomma. Di fronte alla casa avevamo un giardino che io avevo il compito di bagnare religiosamente ogni sera, prestando particolare attenzione ad alcune piante di rododendro. A esse, infatti mia madre teneva tanto da frustarmi di santa ragione quando riteneva che non le avessi bagnate bene. Non erano infrequenti infatti le sere in cui, dopo aver controllato il risultato del mio lavoro, mia madre veniva in camera mia colla frusta in mano, mi obbligava a togliermi i pantaloni e le mutande e a suon di frustate mi faceva tornare in giardino. Nudo dalla vita in giù tornavo a bagnare i rododendri mentre alle mie spalle mia madre, frusta alla mano, si occupava di ricordare alle mie natiche nude quanto ci tenesse a quelle maledette piante.

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