Quella lezione rappresentò un evento memorabile nella mia vita, e non solo perché mi aveva fatto riscoprire il gusto della frusta. Il giorno dopo infatti, mentre sedevo in aula all’università, a un certo punto cominciai a ripensare eccitato alle frustate che mi erano state somministrate il giorno prima, e mi prese una voglia tremenda di spararmi una sega. Per aggiungere un elemento umiliante alla già di per se umiliante pratica di spararmi una sega per essere stato picchiato, pensai che sarebbe stato estremamente più eccitante se, per esempio, fossi andato a spararmi una sega nei bagni delle ragazze, col rischio di farmi sorprendere l dentro da qualcuno. In questo momento mi domando se a volte non possieda come un sesto senso per le cose. Col cazzo semi duro mi alzai e uscii, dirigendomi rapidamente verso i gabinetti femminili.
Non c’era nessuno e mi chiusi nel primo che vidi. Abbassatomi i pantaloni, mi sedetti sul cesso e, chiudendo gli occhi, presi a far scorrere la mano sul cazzo rigido: ripensavo all’umiliazione della battuta che mi aveva dato mio padre, risentivo nelle orecchie gli schiocchi umilianti delle frustate e il loro bruciore sulle mie natiche che traballavano arrossite sotto il morso dello staffile. Ero eccitatissimo. I segni dei colpi erano ancora ben visibili su natiche e cosce e provavo veri e propri brividi di piacere sfregando le une e le altre sull’asse del cesso. All’improvviso, però, udii un rumore strano e aprendo gli occhi vidi il volto di una donna che si sporgeva al di sopra della parete divisoria col bagno adiacente e mi guardava in silenzio.
Quasi svenni. Non tanto perché fosse una bella donna, quanto perché era Clotilde!
Sdraiato quasi sul cesso col cazzo che mi si era afflosciato nella mano non riuscivo quasi a respirare per la violenza di quello shock. Clotilde sparì dal suo posto di osservazione e pochi secondi dopo sentii bussare alla porta. Sapevo che non poteva essere che lei e improvvisamente sentii una eccitazione feroce crescere dentro di me; un’eccitazione forse anche più forte di quella che avevo provato tutte le volte che, durante il mio primo periodo all’università, Clotilde mi aveva picchiato e umiliato di fronte ai nostri compagni di classe o si era chiusa col suo uomo in camera da letto obbligandomi ad ascoltare i loro gemiti mentre facevano l’amore. Aprii la porta con i pantaloni abbassati e il mio cazzo di nuovo ridicolmente duro.
Senza dire una parola Clotilde entrò lasciando la porta aperta, mi guardò con disprezzo e con voce sarcastica e tagliente mi disse: “Vedo che non sei cambiato, infame! Girati verso la parete!”
Inebetito mi girai e improvvisamente sentii le sue mani accarezzarmi le natiche, passando sui segni delle cinghiate. Poi prese a darmi pizzicotti sui segni, torcendo la pelle arrossata tra il pollice e l’indice e strizzandola sempre più forte. Cominciai ad ansimare anch’io, in preda ad un senso di umiliazione violentissimo ed eccitante: ero completamente nudo e costretto a subire le sue sevizie.
Dopo due o tre minuti di questo trattamento mi spuntarono le lacrime agli occhi, perché il dolore era insopportabile e, con un filo di voce, cominciai ad implorare pietà. Fattomi rigirare, mi guardò con ancora maggior disprezzo e mi disse: “Così i tuoi ti frustano ancora, eh? Per che cosa, perché hai rubato la marmellata? Sarei curiosa di vedere che cosa ti farebbero se venissero a sapere che cosa stavi facendo qui! Ora esci e oggi pomeriggio presentati a casa mia alle tre in punto se non vuoi che telefoni ai tuoi genitori!”
Uscì, ed io me ne rimasi appoggiato alla parete che puzzava di orina e colla testa che girava furiosamente, non per lo shock ma nel tentativo di immaginare come avrei potuto giustificare a mio padre e mia madre un’uscita pomeridiana. Forse, pensavo, se avessi scoperto che lo scritto che avevo fatto dieci giorni prima era andato bene avrei potuto azzardare l’ipotesi di dire che dovevo tornare in biblioteca a studiare per l’orale. Rimessomi i pantaloni uscii e mi diressi verso la bacheca.
Era un venti, e questo significava la frusta.