Lei mi aspettava nel salone: il suo sguardo diceva tutto. Timore ed orgoglio: paura per quello che l’aspettava, ma anche consapevolezza che l’avrebbe sopportato eroicamente. Non disse nulla: girò sui tacchi e mi precedette in camera da letto. Chiusi la porta entrando dietro di lei, lo feci per abitudine dato che non c’era nessun altro in casa. Lei non volle nemmeno guardarmi: mi volgeva le spalle; le sue dita sciolsero il bottone metallico dei jeans di velluto. I pantaloni le calarono a metà coscia; passò la mano sotto l’inguine a sciogliere, stavolta, il bottoncino del body: gli orli inferiori dell’indumento, non più trattenuti, si librarono verso l’alto. Non potevo vedere il suo viso, ma immaginavo che fosse diventato tutto rosso. Si buttò sul letto con una gran panciata. Un modo come un altro di disapprovazione. Indossava i collant: li abbassai e feci lo stesso con le mutandine color crema: a metà delle sue cosce, c’era un affollamento di indumenti.
Finalmente, afferrai la bacchetta di salice, dalla parte più spessa del ramoscello. Di nuovo la feci sibilare nell’aria: mi accorsi che lei, istintivamente, stringeva le natiche lunghe e bianche. Le andai di lato, sollevai il salice e lo feci ricadere sui glutei. Una striscia rossa vi si disegnò. Lei strinse i pugni, al termine delle braccia distese lungo il corpo e volse la testa dall’altra parte, per non vedere. “Abbiamo detto trentuno e questo è stato il primo!” cercai di dare alla mia voce un’intonazione severa ma neutra; non so se ci riuscii. La seconda frustata fu simile alla prima, per l’energia che ci misi.
Lei sospirò. Il dolore che provava non doveva esser molto intenso, non a questo inizio. Forse sperava che fosse tutto così. La feci ben presto ricredere, con la terza staffilata. Portai il mio braccio molto in alto e, quando calai il colpo, lo accompagnai con il movimento della spalla. Stavolta, le sue natiche tremarono. Protestò che le avevo fatto proprio male.
“Zitta e soffri!” la mia concisa replica. Dieci strisce belle rosse si erano disegnate sul suo culetto un tempo pallido. Le diedi il tempo di assaporare il bruciore intenso. Benché impedite da quel po’ po’ di affollamento di jeans, collant e mutandine, le sue cosce e le sue gambe erano in preda al tremito involontario. Aspettai che si fermasse. Strinsi nel pugno anche la seconda verga di salice: con due, l’effetto sarebbe stato peggiore. Per lei. Se ne accorse e mi rimproverò dicendo che questo non era nei patti. La ignorai. Le altre nove gliele diedi con la sferza doppia. Ad un certo punto, girò il viso: la gota non toccava più la coperta sopra al letto; ne aveva afferrato un pezzo con i denti, per non gridare.
Il culo era tutto rosso, al colmo e cominciava a gonfiarsi lentamente. I piedi, sul bordo del letto, presero a battere come in un movimento di nuoto quando mi fermai. Trascorsi pochi secondi, ritornai a batterla. Mugolò quando la sferza doppia era tornata a colpire la sua pelle, ma nella fossa immediatamente al di sotto delle natiche, laddove la pelle è più sensibile. Ero sicuro che avesse contato i colpi e li fosse stato contando tuttora. Volevo centellinare gli ultimi nove. Qualunque cosa avessi detto, avrebbe spezzato il momento magico per me. Fu lei a chiedermi, la voce quasi spezzata, che le concedessi un po’ di tregua: il posteriore le faceva troppo male!
Contai mentalmente fino a quindici, ma in maniera svelta. Non se l’aspettava così forte. Il sibilo dei rami ed il loro schianto sulla pelle furono simultanei. Stavolta strillò: non molto acuto, ma pur sempre di uno strillo si trattava! La parte terminale della verga più lunga si era staccata in seguito alla violenza con cui era atterrata sulla carne ed andò a depositarsi proprio accanto alla sua guancia. Vedevo la sua schiena sollevarsi a causa del respiro ansante. I lividi e le enfiagioni, la pelle schiacciata dai colpi, rendevano variegato il suo deretano sull’uniforme sfondo rosso. Ero sicuro che i suoi occhi lacrimassero, però resisteva. Le nocche dei pugni ormai sbiancate per la forza con cui li stringeva. Era al limite della sopportazione. Perciò, rallentai la veemenza per gli altri colpi. Mentalmente, mi ringraziò: ne ero sicuro. Mancava soltanto l’ultimo colpo. Feci due passi indietro; lei lo capì ed incassò la testa fra le spalle in trepida e timorosa attesa. Fu assai più forte di come se lo era immaginato: una miriade di scagliette vegetali volò per aria ed un paio rimasero ancorate nella sua pelle. Gettai sul letto quel che rimaneva dei due rami di salice. Ebbe tutto il tempo per riprendere fiato, per tornare al respiro normale. Lentamente scivolò giù dal materasso; si passò ansiosamente le mani sui glutei: massaggiandoseli, la soddisfazione di compiere tale gesto le si leggeva in volto. Alternò il peso del corpo su entrambi i piedi. Avevo ragione io: i suoi occhi erano rossi e umidi. “Me lo sono meritato, ma sei stato cattivo!” fu il suo commento mentre si ritirava su le mutandine: l’elastico sembrò strapparle una smorfietta di dolore, mentre le strusciava le natiche gonfie. Fu la volta dei collant; armeggiò un paio di secondi per riabbottonarsi il body. Le sue guance erano rosse quasi come le sue natiche.