La mia Padrona mi aveva ordinato di recarmi da Lei indossando le calze velate di nylon che mi aveva comprato appositamente in una precedente occasione, da abbinare ad un paio di scarpe coi tacchi a spillo di dieci centimetri, nere, di vernice, lucide, della mia misura, anch’esse comprate apposta per me. Due regali che avevo molto apprezzato, anche se delle scarpe potevo disporre solo quando mi recavo da lei e con lei presente. Le calze invece me le lasciò perché potessi indossarle ogniqualvolta me l’avesse ordinato, come in questo caso.
Fino a quel momento le scarpe mi erano state fatte indossare solo in casa, ma con una serie di allusioni al fatto che ben presto avrei dovuto sfoggiarle anche in pubblico. Oltre alle calze nere mi ordinò di indossare una guaina intera color carne, con un disegno a rombo in raso sul davanti, fatta a body, con spalline e striscia tra le gambe fissata, come il resto della guaina, con gancetti metallici.
La guaina era molto molto stretta, me la infilai a forza poiché anche aperta faticava a passare sul sedere, me la fissai coi gancetti sopra i quali chiusi una cerniera che li copriva esteticamente e rafforzava la stretta. Una volta stretti i gancetti la carne del ventre fu subito compressa, la pressione era per il momento leggera ma sapevo si sarebbe trasformata nel corso delle ore in una cosa ben più angosciante.
Inizialmente mi aveva chiesto di andare da lei a serata inoltrata perché aveva un appuntamento con un altro schiavo, e ci tenne a sottolineare che aveva un altro schiavo, per farmi sentire tutta la mia fragilità, tutta la mia debolezza, paventando la possibilità di essere sostituito in qualsiasi momento da uno dei tanti schiavi che lei ha. Poi però cambiò idea, ordinandomi di andare prima del suo appuntamento e di portarle anche qualcuno dei giocattoli che di solito ama usare con me, questo perché alcuni le piacciono molto e voleva collaudarli con l’altro schiavo. Forse anche questo era un modo per umiliarmi, usare le mie cose per un altro, mettendomi da parte?
Mi disse di arrivare prima delle 21.00; alle 20.45 ero già vicino a casa sua quando mi chiamò al cellulare per sollecitarmi, e si arrabbiò quando arrivai alle 20.58.
“Ti avevo detto di arrivare prima delle nove” urlò, e a nulla valsero le mie giustificazioni sul fatto che comunque mancassero ancora pochi minuti alle nove.
“Ti permetti di discutere anche?” e il discorso si concluse con un sonoro ceffone sul mio viso.
Mi fece entrare, mi fece aprire la borsa, ed estrasse i giocattoli che preferiva: il frustino da cavalli, la museruola di cuoio che le piace tanto, le manette, il bavaglio a pallina, tutte cose che aveva già sperimentato con me e che aveva dimostrato di gradire. Poi volle vedere se avevo indossato tutto quanto ordinato, incuriosita dalle sporgenze che si notavano sul mio petto; mi spogliai e ne fu soddisfatta, soprattutto del fatto che la guaina comprimendo il busto fin sotto il petto, ne faceva fuoriuscire i muscoli fino a formare delle tettine che riempivano le piccole coppe della guaina, coppe minute, fatte
probabilmente per una donna poco prosperosa.
“Bene, bene, – disse ridendo – visto che hai già le tette ti potrò portare fuori un giorno, vestito da donna, con una mia gonna in stretch e una bella camicetta, che ne dici?”
La guardai, titubante come sempre a mostrare una mia reazione, con l’aria neutra che assumo quando qualcosa che mi dice mi preoccupa ma non voglio darlo a vedere per non stimolarle la voglia di metterlo in atto immediatamente. Mi fece richiudere i vestiti normali sopra quelli da donna e si mise a leggere il resoconto del nostro precedente incontro, cosa che mi fa sempre scrivere, e mi concesse di farle compagnia sedendomi lì vicino in silenzio.
La mia Padrona era vestita in modo molto eccitante e provocatorio: indossava un paio di scarpe nuove vertiginosamente alte, con un tacco a spillo alto almeno 10 cm. Non avevo mai visto un tacco così dal vero, sottile, aguzzo, elegantissimo, finiva con la punta non più larga di due-tre mm, acuminato e aguzzo.
Intanto che aspettava ancora lo schiavo infatti me ne diede un assaggio premendolo sulle gambe, e soprattutto in mezzo al cavallo dei pantaloni. Poi me lo appoggiò sulle labbra, mi costrinse a baciarlo e leccarlo, me lo infilò in bocca costringendomi praticamente a fare un pompino al suo tacco. Preso dalla smania di piacerle cominciai a succhiarlo in tutta la sua lunghezza, leccando e baciando l’esterno della scarpa non trascurando le caviglie.
Nel frattempo arrivò l’orario dell’appuntamento e dello schiavo nemmeno l’ombra, la Padrona iniziò giustamente a dare segni di agitazione: come?, uno schiavo che non si presenta senza nemmeno avvisare? Passò di mezz’ora l’orario e lei era ormai arrabbiatissima. Mi fissò con uno sguardo truce e mi disse “Avanti, usciamo io e te” avviandosi verso la porta.
La seguii senza proferire parola, felice per il fatto che questo pseudo schiavo (perché non si può, definire altrimenti uno che osa mancare ad un appuntamento con la propria Padrona senza nemmeno degnarsi di avvisare e di giustificarsi) non si fosse visto, felice che la serata si volgesse a mio favore e che avrebbe avuto più tempo da dedicare a me. L’unica cosa che mi preoccupava era che sapevo per esperienza si sarebbe prima o poi sfogata su di me.
Mi portò in giro nelle zone della città dove “lavoravano” i travestiti, e non mancava di ricordarmi che un giorno avrebbe portato lì anche me, “Vestito da donna naturalmente
-aggiunse ridendo – così vediamo se porti a casa un po’ di soldi.”
Lei mi camminava a fianco e io ero ipnotizzato dal rumore dei tacchi sul selciato, e ogni tanto non mancavo di sbirciarli, come quando, arrivati ad un bar, ci sedemmo e lei si alzò per andare in bagno; non potei fare a meno di fissare i suoi piedi, i suoi passi, il suo incedere, cose che ad onor del vero erano notate e osservate anche da tutti gli altri avventori.
Usciti dal bar ci avvicinammo alla macchina e lei lamentò il fatto che quelle scarpe cominciassero a farla sentire stanca e avrebbe tanto voluto riposare i piedi. Mi ordinò di darle le mie scarpe visto che portiamo la stessa misura. Obiettai: “ma io cosa mi metto adesso? ”
“Le mie, no?” fu la risposta divertita e decisa della Padrona.
Mi infilai così quelle fantastiche scarpe, che scivolarono facilmente sulle sottostanti calze di nylon dopo che mi fui tolto le calze da uomo; eravamo sul marciapiede in una zona buia, oltre mezzanotte, il che non mi fece preoccupare molto per quello che stavo facendo.
Una cosa che comunque mi sembrava normale proprio perché ordinatami dalla Padrona e in sua presenza: da solo non avrei forse avuto tanto coraggio.
Le scarpe mi andavano leggermente strette e per di più dovevo stare praticamente in punta di piedi, perché i tacchi erano così alti da rendere l’equilibrio veramente instabile. Avevo, è vero, provato dei tacchi a spillo, ma mai cosi alti. Lei si mise le mie scarpe affermando che le stavano molto comode e si sedette in macchina.
Sempre ridendo mi ordinò di salire e partire: mi trovavo dal suo lato poiché lei vuole sempre che le apra e richiuda la portiere, e se mi dimentico sono punizioni che fioccano, così feci il giro dell’auto passando davanti, facendo attenzione che non provenisse qualcuno che mi potesse notare, e mi infilai al posto di guida.
Al momento mi trovai in difficoltà non essendo abituato a quel lungo stiletto, quello spuntone aguzzo sotto il calcagno che mi impediva di appoggiare i piedi. Lei mi diede istruzioni su come guidare coi tacchi visto che aveva molta più esperienza di me e in qualche modo riuscii a partire.
Mi fece fare un altro giro in centro e a un certo punto mi ordinò di fermarmi ad un bar tabacchi per acquistare le sigarette. Era il classico bar aperto la notte, meta di tutti i fumatori, e al banco c’era un certo affollamento.
Parcheggiai davanti e aspettai che scendesse, ma mi guardò sorridendo come sempre quando sta macchinando e tramando qualcosa, e mi disse “Cosa aspetti?”
“Non devi andare a prendere le sigarette?” chiesi io ingenuamente.
“No caro, ci vai tu per me, cosa credevi?”
Sentii il sangue montare alla testa “No, no, ti prego”
“MI PREGHI? Cosa mi preghi? Tu devi fare quel che io ti ordino, avanti, scendi”
“Ma c’è un sacco di gente ”
“Appunto, l’ho fatto per quello”
“No dai, poi in questi bar sai che gente ci trovi, cominciano a sfottermi, magari iniziano a dirmi qualcosa, a provocarmi, non saprei come reagire; magari succede un casino per colpa mia”
“Oh, quante storie, allora deciditi, o qui o in stazione al distributore automatico.”
Presi l’occasione al volo e accettai immediatamente l’offerta “Preferisco la stazione”
“Ok, allora gira la macchina e andiamo”
Arrivato alla stazione vidi però che l’atrio era affollato di gente.
“Ah ah – fece lei – speravi forse di non trovarci nessuno qua?”
“Beh almeno non devo parlarci con la macchinetta delle sigarette”
“Si si, vedi tu, basta che ti sbrighi”
Ci misi qualche minuto prima di trovare il coraggio di scendere, e quando lo feci cercai soprattutto di non sbilanciarmi per evitare di cadere aggiungendo ridicolo a quello che già stavo vivendo. Cercai di guardare sempre verso terra con l’aria di una verginella timida, evitando di incrociare lo sguardo della gente intorno.
Mi portai alla macchinetta che fortunatamente in quel momento non aveva davanti nessuno. Mi parve di sentire dei risolini sommessi di un gruppo di ragazze lì vicino, non so se fu la mia immaginazione o se era vero, non guardavo chi fossero, magari ridevano per fatti loro, ma era impossibile non avessero notato quest’uomo che si era avvicinato con l’andatura traballante e col classico, inconfondibile rumore di tacchi a spillo. Oltretutto i pantaloni non coprivano nulla delle scarpe, che erano lì da ammirare in tutta la loro eleganza.
Infilai con mani tremanti la banconota, che però venne rifiutata. Iniziai a tremare per la
prospettiva di dover tornare alla macchina a prenderne un’altra, allungando cosi la mia
penosa situazione. Ogni minuto infatti mi sembrava che mille altri occhi si aggiungessero alla platea degli spettatori, e addirittura immaginavo che qualcuno avesse diffuso la voce e che altra gente stesse arrivando a ridicolizzarmi.
Provai a raddrizzarla e a rinfilarla, e finalmente fu accettata, premetti il pulsante e scese il primo pacchetto di sigarette, ripremetti il pulsante ma il secondo non scese, ancora più tempo di agonia… Provai con un altro pulsante e con mio sollievo sentii il rumore della scatola cadere.
Prelevai i pacchetti, presi il resto e mi avviai deciso verso la macchina cercando contemporaneamente di accelerare il passo ma insieme di non inciampare alzando il più possibile i piedi.
La mia Padrona era girata verso di me e rideva di gusto; salii in auto che stava ancora
ridendo e le chiesi “Sei contenta?”
“Certo, mi sono divertita da matti a vedere il tuo viso imbarazzato e il tuo sguardo a terra. Inizi bene, la prossima volta farai di più.
Ci avviammo verso casa, ma quasi a destinazione lei si ricordò di una cosa: “Dovevamo comprare il gelato per mia figlia e le mie amiche, non ricordi?”
“Ok, dove andiamo?”
“Al bar dove eravamo prima, vai”
Tornammo alla birreria, parcheggiai di fronte e di nuovo si ripeté la scena del bar tabacchi.
“Eh eh, non credere di scamparla, ormai che ti sei abituato mi vai tu a prendere il gelato”
mi disse sempre ridendo.
“In questo locale affollato?”
“Dai dai, prima che perda la pazienza e tu sai bene cosa ti può succedere se la perdo, no?”
I1 pensiero della Padrona adirata che nel chiuso della sua stanza mi avrebbe fatto pagare con tormenti indicibili quella disubbidienza mi fece scattare a terra, e mi incamminai cercando di figurarmi cosa avrei fatto una volta dentro il locale. Devo dire che camminavo già più sicuro su quegli stiletti altissimi; una volta sulla porta, posta di fronte al bancone, vidi con orrore che il barista non era al suo posto, il che significava che avrei dovuto attenderlo o addirittura andare a cercarlo chissà dove all’interno.
Attesi un po’ poi pensai che era anche peggio restare lì ad aspettare che entrasse o uscisse qualcun altro, così allungai la testa tenendo le gambe fuori vista e vidi con sollievo la persona che cercavo a pochi metri dalla porta.
Con aria naturale gli chiesi che volevo e lui andò al frigorifero, però invece di portarmeli come speravo lì dov’ero tornò coi gelati dietro il banco dove si mise a fare i conti del prezzo.
“Accidenti – pensai – ora mi tocca proprio entrare”
Aspettai comunque che finisse i conti, ma a un certo punto, probabilmente incuriosito dal mio stazionamento sulla porta, mi diede un’occhiata veloce, che dopo avermi scrutato sul viso corse verso il basso, ed ebbi la certezza che aveva visto le calzature che portavo ai piedi. Da bravo professionista comunque fece finta di niente e si chinò sulla sua calcolatrice.
A quel punto era inutile che stessi li e per di più ormai doveva aver finito i conteggi per cui sarebbe stato assurdo che io pretendessi di pagare sulla porta. Mentre stavo per avvicinarmi una coppia si alzò da un tavolo e si accostò al banco per pagare anch’essa: restai bloccato, ma sicuramente non avrebbe fatto il loro conto prima che io regolassi il mio, per cui il male minore era entrare e fare finta di niente. Cercai di camminare in punta di piedi, per non ticchettare sul pavimento, anche se questo avrebbe reso ancora più ridicola la mia andatura: ci riuscii e mi appoggiai al banco.
C’è da dire che essendo la coppia molto vicina non avevano motivo di guardarmi i piedi, mentre gli avventori seduti al tavoli invece li vedevano, eccome, e io temevo sempre di sentire qualcuno avvicinarsi con qualche commento salace. Per colmo di sfortuna dovette ritornare al frigorifero perché aveva dimenticato i cucchiaini, il che non fece che aumentare la mia ansia: il tempo era un fattore maledetto in quei frangenti.
Finalmente riuscii a pagare e mi affrettai ad uscire sempre cercando di non inciampare e sospirai quando mi ritrovai nell’oscurità amica dell’esterno. Di nuovo vidi la Padrona che se la rideva beata in auto.
“Allora, com’è andata?” mi chiese.
“Bene” risposi. Che altro potevo dire? Non volevo darle troppa soddisfazione perché non ci prendesse gusto e rincarasse la dose, poiché solitamente quando qualcosa mi mette in imbarazzo è la volta che insiste.
Passata anche questa prova dirigemmo finalmente verso casa, parcheggiando di fronte, e l’attraversamento della strada con quei tacchi fu un gioco rispetto a quello che avevo dovuto fare prima. Salii i pochi gradini fino alla sua porta, che varcai dopo di lei.
Sentii il commento di Michela e Gianna: “Che scarpe hai?” riferito alle mie scarpe basse con la suola in gomma, calzature del tutto estranee al suo normale abbigliamento. Mi affacciai alla soglia sporgendo solo il busto e dissi “Le mie!!!” con uno sguardo eloquente come a dire “indovinate allora io che porto?”
Ma la Padrona abbreviò il gioco ordinandomi di entrare e farmi vedere. Un po’ imbarazzato (ma niente in confronto a prima) entrai in sala seguito da due paia di occhi e dal commento di Gianna: “Però, ti stanno bene, ma riesci anche a camminare?”
“Eh come no – si compiacque la Padrona – L’ho addestrato bene, su fai vedere come te la cavi.”
Iniziai così ad andare avanti e indietro dalla sala alla cucina, dove mi recai anche per preparare i cucchiaini, le coppette, ecc, unendo cosi l’utile al dilettevole (loro), onde permettere alla Padrona e alle sue amiche di godersi il gelato procurato con tanta… sofferenza.
Poi ci trasferimmo tutti in cucina dove la mia Padrona si divertì a mettermi ancora in difficoltà ordinandomi di levarmi la camicia e raccontando nel frattempo ciò che mi aveva fatto fare in stazione e al bar.
Togliendomi la maglia misi allo scoperto la guaina, che attirò l’attenzione di Gianna.
“Ma l’hai portato in giro così?”
“No, per stavolta solo con le scarpe, ma ho in mente di portarlo in giro vestito da donna con una mia gonna in stretch, che ne dici?
“Ottima idea, certo che quella guaina deve essere ben stretta eh?”
“Si, infatti, glie l’ho fatta mettere io apposta” confenn0 la Padrona.
Dopo tutte quelle ore infatti cominciavo a sentirne veramente la stretta che sebbene con dolorosa come quella di un corsetto era sufficientemente fastidiosa.
“Bene, vai di là, togliti anche i pantaloni e torna qui a farti vedere” fu l’ordine della
Padrona.
Una volta eseguito l’ordine ritornai in cucina dove venni scrutato e valutato pare positivamente a giudicare dai risolini delle ragazze.
“Ho voglia di bere qualcosa, che c’è in casa?” esclamò la Padrona.
“Nulla temo, a parte acqua” le rispose Gianna.
“Bene, lo mandiamo a prendere qualcosa da bere. Che ne dite ragazze?”
“Mah, io non ne ho voglia”, “Io nemmeno” furono le risposte.