Entrambi cominciarono a mugolare di piacere e ai piedi del letto io vedevo solo il culo bianco e carnoso di Clotilde ondeggiare e il suo sfintere aprirsi e chiudersi di piacere: ad un certo punto, sempre rimanendo a quattro zampe, Clotilde si voltò e lo pregò di prenderla: afferrandola per i lombi lui introdusse il suo uccello mostruoso nella sua fica e Clotilde lanciò un grido. Per venti minuti almeno dovetti assistere alla scena di quel uccello enorme che entrava e usciva dalla fica fracida di Clotilde, la quale nel frattempo roteava le anche mugolando e impalandosi in estasi su quel palo di carne durissimo.
Quando alla fine lui la baciò sul collo, Clotilde lanciò un urlo disumano e vennero insieme: vidi la sborra densa di lui eruttare dalle labbra tremolanti della sorca di Clotilde che, ormai in preda al delirio erotico, urlava: “Sì aahhì amore! .. aahhì … ancora … aaahh!.. finalmente un vero uomo! .. oohh! … tesoro, sì! … così … ancora … aaahh!”
Quando terminarono, mi disse che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei potuto assistere ai loro incontri amorosi: a partire da quel giorno sarebbero stati entrambi i miei padroni e, ogni volta che avessero fatto l’amore, lui prima mi avrebbe picchiato in presenza di lei e fino a quando lei non fosse stata soddisfatta.
Il sabato successivo i nostri compagni di classe avevano organizzato un gioco che prevedeva che sarei stato messo all’asta e che il vincitore mi avrebbe usato come meglio lo avesse ritenuto opportuno. Inutile dire che venni aggiudicato a Clotilde la quale, sedutasi su una poltrona, pregò il suo nuovo uomo di picchiarmi di fronte a tutti. Lui mi ingiunse di denudarmi e di inginocchiarmi davanti a Clotilde; poi si sfilò la cintura dei pantaloni e cominciò a frustarmi. Sotto i colpi vedevo Clotilde fissarmi con gli occhi lucidi di libidine e sorridere beffarda mentre mi diceva che ero un verme.
A un certo punto sospese la mia punizione ed entrambi si sdraiarono sul divano di fronte a me. Infilandole le mani sotto il vestito, lui le abbassò le mutandine e le introdusse un dito nella topa, palpandole allo stesso tempo le poppe nude con l’altra mano. Clotilde sussultava ansimando sotto quelle carezze e prese a baciarlo furiosamente mentre sperimentava il primo orgasmo. Poi si alzarono e se ne andarono in una delle camere vicine per fare l’amore.
Un’ora dopo Clotilde uscì e mi trascinò in una camera da letto dove mi fece spogliare e si svestì, rimanendo in sottoveste. Ricordo ancora le sue carni debordare generosamente dal corsetto a stecche di balena che indossava e le sue cosce bianchicce contrastare col reggicalze nero. Quando notò il mio stupore per quella biancheria mi disse sadicamente che la indossava per compiacere i desideri del suo nuovo uomo. Dopo avermi legato a quattro zampe sul letto prese un battipanni di vimini e cominciò a sculacciarmi natiche e cosce, dicendomi che ero stato uno schiavo cattivo perché mi ero dimenticato di farle un bidè colla lingua dopo che lei aveva fatto l’amore col suo uomo. Dopo duecento colpi circa mi slegò, ma solo per tornare a legarmi, questa volta supino, sul letto. Quindi ricordo che si sedette sopra di me, appoggiando il sedere sulla mia faccia.
Quasi soffocandomi tra le sue natiche sode mi ordinò di leccarle l’ano e la fica, e cominciò a strusciare l’uno e l’altra sul mio naso e la mia bocca. Dovetti leccarle quei due buchi odourosi per più di mezz’ora, passando e ripassando la lingua a ripulirle la sborra densa di cui l’aveva riempita il suo nuovo amore, fino a quando non venne sussultando e inondandomi la faccia dei suoi umori appiccicosi. Poi chiamò il suo uomo col quale, infoiata com’era, voleva fare di nuovo l’amore e mi chiuse nel bagno.
Mi liberò verso le nove e quando uscii lui era seduto sul letto, ancora nudo, e Clotilde mi ordinò di ripulirgli l’uccello ancora bagnato dei loro liquidi intimi. Mi inginocchiai di fronte a lui che mi spinse in bocca il suo uccello gocciolante, semi rigido ma ancora mostruosamente grande. Presi a succhiarlo e in quello stesso momento Clotilde mi si avvicinò e mi infilò rabbiosamente un dito in culo. Colla mano libera prese a strizzarmi impietosamente cazzetto e testicoli e mi sussurrò ad un orecchio: “Succhiaglielo con devozione, perché lui è il mio uomo. Io lo amo e con quel uccello mi ha appena fatto sentire felice di essere la sua donna!”
Eccitato dalle parole umilianti di Clotilde, sentii il mio cazzetto diventare durissimo tra le sue dita. Improvvisamente mi ricordai che la mia libera uscita di casa scadeva alle sette, per cui ero già in ritardo di due ore e non sarei stato a casa, nella migliore delle ipotesi, prima di altre due. Sentii nelle orecchie lo schiocco delle cinghiate che immancabilmente mio padre mi avrebbe somministrato sulle natiche nude non appena fossi arrivato a casa e venni nella mano di Clotilde.
Con un grido disgustato Clotilde mostrò la mano gocciolante di sborra al suo uomo nello stesso momento in cui lui scaricava il primo fiotto di sborra bollente sulle mie gengive. Estrattomi l’uccello dalla bocca mi afferrò per i capelli, mi obbligò a ripulirgli il glande colla lingua e le disse di passargli la sua cintura che “… mi avrebbe insegnato ad insozzare la sua donna …”
E me lo insegnò frustandomi la schiena mentre mi faceva leccare i piedini nudi di Clotilde che, seduta sul letto, si masturbava eccitata mentre lo pregava di darmi una lezione da non dimenticare.
Mi lasciarono andare via verso mezzanotte. Quando entrai in casa mio padre mi stava aspettando.
Afferratomi per un orecchio mi trascinò in camera mia e mi ordinò di togliermi i pantaloni e le mutande per frustarmi. Poi mi fece sdraiare a pancia in giù sul letto e si sfilò la cintura dei pantaloni. Quando mi fui sdraiato cominciai a muovere le anche strusciando il glande sulle coperte e pensai che mentre io ero lì, col culo nudo ignomignosamente esposto in attesa della frusta, in quello stesso momento Clotilde era distesa nel suo letto a fare l’amore col suo uomo. Poi mio padre incominciò a frustarmi. Ogni schiocco della cinghia sul sedere si traduceva nella mia mente nell’immagine di un colpo di reni di lui che affondava il suo uccello enorme nella fica di Clotilde. Fingendo di sobbalzare per il dolore di ogni cinghiata presi anch’io a muovermi come se stessi penetrandola e cominciai a pensare che in quel momento c’era un altro al mio posto che la stava possedendo davvero.
E venni, ma venni troppo presto. Perché dopo essere venuto cominciai a sentire in pieno il dolore delle frustate che mio padre non accennava a smettere di somministrarmi. Ero rientrato con cinque ore di ritardo e questo significava ricevere 600 frustate; io ero venuto prima che me mio padre ne amministrasse cento, per cui i successivi cinquanta minuti passati sotto la cinghia furono un inferno.